Errare e non correggersi, questo si chiama errare! La nostra gloria più grande non è nel non cadere mai, ma nel rialzarci dopo ogni caduta. Ho intitolato il «Mattutino» di oggi con un termine che segna una famosa raccolta di racconti dello scrittore francese Albert Camus: Chute, la «caduta» (1956). Il vocabolo, certo, rimanda anche al capitombolo fisico, al ruzzolare stramazzando a terra, ma è stato elevato a simbolo morale di colpa, errore, peccato. È in questa accezione metaforica che ci fermiamo, sostenuti da due aforismi dalla genesi molto diversa ma dall'esito comune. La prima frase è del celebre sapiente cinese Confucio e la seconda è dell'altrettanto celebre autore del Faust, Goethe. Entrambi, pur essendo distanti tra loro secoli, s'incontrano su una comune convinzione: la caduta fa parte della debolezza della nostra libertà, della fragilità della nostra volontà, della colpevolezza di fondo di tante nostre scelte. C'è, però, una differenza. Alcuni cadono nel male e là si acquietano: è un atteggiamento di capitolazione, oppure è una scelta di comodo. Si rimane e si sguazza nel fango, dimenticando il cielo da cui si è precipitati. È, questo, il vizio, un «errare e non correggersi», per dirla con Confucio. Ci sono, però, altri che sono piombati nel peccato, sono sprofondati nelle sabbie mobili dell'errore, ma non si rassegnano e con mani sanguinanti s'aggrappano a una roccia per risalire faticosamente e umilmente. E qui, per dirla con Goethe, si ha la vera nostra gloria che non è un'impossibile impeccabilità, bensì la coraggiosa volontà di «rialzarsi dopo ogni caduta». È il perdono di Cristo all'adultera: «Io non ti condanno, ma va' e d'ora in poi non peccare più» (Giovanni 8,11).
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