Rendiamo necessarie mille cose superflue: esse generano un'infinità di miserie, una perdita di tempo e una vita difficile e tesa- Il superfluo dei ricchi dovrebbe servire al necessario dei poveri e, invece, il necessario dei poveri serve al superfluo dei ricchi. Si racconta che Socrate visitasse spesso il mercato di Atene e a chi gli chiedeva la ragione di tanto interesse, anche perché non vi acquistava nulla, rispondesse: «Vedo tutte le cose di cui non ho bisogno e di cui si può fare a meno nella vita». È un po' quello che noi chiamiamo «il superfluo», una realtà sulla quale si fonda invece una buona parte dell'attuale pubblicità. Mi sono imbattuto, al riguardo, in una suggestiva riflessione di Jean Domat, considerato il più grande giureconsulto francese del Seicento. La propongo nella sua immediatezza perché ci aiuta a fare almeno due considerazioni. Da un lato, c'è l'efficace rappresentazione delle cose inutili che accumuliamo (si pensi, solo per fare un esempio, allo spreco dei medicinali). Il cliente - anzi, il customer, come si usa dire oggi - è coccolato, assediato e circuito perché si convinca, come scriveva Erich Fromm nell'Arte di amare, che «la felicità moderna consiste nel guardare le vetrine e comprare tutto quello che ci si può permettere, in contanti o a rate». D'altro lato, questo consumismo spesso è un bene sottratto a chi ha la pura e semplice e vera necessità di sopravvivere. Pensiamo all'enorme quantità di pane che ogni giorno è gettata nella spazzatura e allo sperpero di realtà naturali che permetterebbero a molti di non morire di fame. In questi e altri casi ha ragione Domat: noi destiniamo il necessario dei poveri alle cupidigie del nostro superfluo.
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