Su venti persone che parlano di noi, diciannove ne dicono male e la ventesima, che ne dice bene, lo dice male. Non direte mai tanto male di me, quanto io ne penserei di voi, se pensassi a voi. Quella di oggi è una riflessione al vetriolo. A suggerirmela è stata un'antologia di testi dello scrittore satirico francese Antoine Rivarol (1753-1801) che mi è rimasta sul tavolo, dopo averla usata per un «Mattutino» di qualche giorno fa. Che lo sparlare degli altri sia un esercizio che dà soddisfazione è, ahimè, una verità incontrovertibile perché - se siamo sinceri - siamo noi per primi a provarla. Quella della mormorazione è una prassi che può essere inoffensiva (e persino segno di un certo interesse per il prossimo) quando rimane a livello di pettegolezzo. Essa, però, diventa pericolosa e una vera piaga (e naturalmente un peccato) quando si trasforma in calunnia che aggredisce con cattiveria e con odio sottile l'altra persona. Rivarol, nella prima frase sopra citata, ci disillude quando crediamo di essere ammirati: sono di più i maldicenti, e anche quelli che ti lodano forse lo fanno con scarso entusiasmo e non come il tuo orgoglio desidererebbe. Che questa sia una triste e costante consuetudine, come sopra si diceva, lo ribadisce la seconda battuta che abbiamo desunto da Jules Renard, sì, l'autore ottocentesco di quel Pel di carota che ha fatto versare qualche lacrima nell'adolescenza a quelli della mia età. E se rileggete le sue parole, vi accorgete che c'è una punta di malizia e di cattiveria in più. In pratica si mette come vertice del disprezzo non il parlar male, ma l'ignorare l'altro, il non pensare minimamente a lui, non considerandolo neppure meritevole di attenzione. Fermiamoci qui e andiamo a rileggere nel Vangelo il monito di Cristo su chi insulta e disprezza il fratello (Matteo 5,22).
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