Dei miei trentasei anni almeno venticinque li ho passati sui banchi di scuola; ma sui libri non ho mai imparato così tanto come entrando dentro le case e nel cuore di chi soffre, alla scuola della vita.
La mia vocazione al sacerdozio è fiorita proprio dal contatto con le miserie dei più poveri e delle persone in difficoltà. Dio chiama anche attraverso la sofferenza e il silenzio delle solitudini quotidiane. Ho capito che il dolore della porta accanto è una provocazione, una autentica chiamata ad amare. Alla scuola di chi soffre si impara molto. Si impara anzitutto il silenzio.
I tre amici di Giobbe, giunti al suo capezzale per consolarlo e sostenerlo per le numerose disgrazie che si erano abbattute su di lui, si chiudono nel silenzio. La loro prima reazione dinanzi alla sofferenza dell'amico è quella di non dire nulla. "Si sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti. Nessuno gli rivolgeva più la parola, perchè vedevano che molto grande era il suo dolore "(Gb 2,13). La sofferenza ci insegna il silenzio, ci educa a misurare le parole, a non sprecarle. Come disse in modo provocatorio il grande scrittore inglese W. Shakespeare, "tutti gli uomini sanno dare consigli e conforto al dolore che non provano".
Alla scuola di chi soffre si impara poi l'umiltà.
Di fronte al dolore nostro e altrui, spesso non sappiamo cosa fare e ci sentiamo impotenti, piccoli. Sperimentiamo la fragilità dell’esistenza umana, che tutto ciò che possediamo e siamo non è per nulla scontato. Oggi c'è, domani forse non più. Sperimentiamo che ogni giorno in più che viviamo è un dono che ci viene concesso dall'alto, un dono da custodire umilmente e sapientemente e di cui dar lode al Signore. Come dice il salmista: "Insegnaci a contare i nostri giorni e acquisteremo un cuore saggio" (Sal 90,12).
Alla scuola di chi soffre si impara soprattutto ad amare.
Mi viene in mente il brano evangelico del buon samaritano. Diversamente dal levita e dal sacerdote che, imbattendosi nell’uomo che giaceva a terra mezzo morto, passarono oltre, il samaritano "passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione" (Lc 10,33). Ne ebbe compassione. Cosa vuol dire? Che il tuo problema è un mio problema. Ha urtato la mia coscienza e mi sta a cuore. Il tuo dolore mi provoca e mi chiama ad uscire da me stesso, dal mio egoismo, dalle mie false sicurezze e dalla mia vita tranquilla per intraprendere un cammino più scomodo ma più appagante, quello dell’amore. Per questo motivo è così importante per i nostri giovani fare esperienze di servizio con le persone più bisognose, come il mese trascorso in Caritas (Casa San Simone e Casa Mamre) dal gruppo di II-III superiore nel gennaio scorso o la consueta visita di auguri agli ammalati nelle case del nostro quartiere in occasione del Natale o della Pasqua.
Infine, alla scuola di chi soffre si impara a credere.
Nelle tante visite ai malati ed alle persone in difficoltà, io ho imparato cosa significa avere fede. Non da tutti, però da molti. Anche se sono sacerdote, pastore di una comunità chiamato a prendersi cura del suo gregge e a guidarlo nel suo cammino di fede, ho incontrato persone in difficoltà che hanno più fede di me. Più sante di me.
La sofferenza può distruggere la fede; può mettere in discussione l'esistenza di Dio o la sua stessa bontà. "Svegliati! Perchè dormi, Signore? Destati, non respingerci per sempre!
Perchè nascondi il tuo volto, dimentichi la nostra miseria e oppressione?" (Sal 44,24-25). Ma proprio dentro questo buio dove camminiamo barcollanti, il Signore mette alla prova la nostra fiducia e ci chiede di tenderGli le braccia come farebbe una mamma col suo bambino. Fidati di me! "Coraggio, sono io, non aver paura!" (Mt 14,27).
Ormai in prossimità della Pasqua, rivolgo lo sguardo a Cristo crocifisso, colui che ha sofferto più di tutti e per tutti.
0 Gesù,
maestro del silenzio,
umile servo del Padre,
pastore buono e compassionevole,
primo testimone della fede.
Piega il tuo sguardo sulle nostre ferite,
visitale e trasfigurale nella tua gloria.
Buona Pasqua
don Alessandro Franzoni
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