Povertà, castità e obbedienza: i tre classici impegni di vita evangelica, che diventano voti per i religiosi, ad un’analisi superficiale sembrano essere appannaggio di pochi, un privilegio o un’autocondanna, una soluzione di comodo oppure un onere di facciata. Per qualcuno, povertà fa rima con disgrazia, castità con castrazione, obbedienza con debolezza. Concetti precisi e condivisibili se il cristianesimo è concepito come la religione della sottrazione e non della pienezza.
Se già qualcosa ho detto a proposito della castità, mi piace oggi fermarmi sulla povertà. A molti fa paura, ad altri piacerebbe invece vivere una “povertà controllata”, cioè desiderano stare lontani dalle preoccupazioni che una vita agiata porta con sé. Ma cos’è la povertà? Per Gesù è una virtù o uno svantaggio?
Se è vero che Gesù ha parlato di povertà materiale all’interno delle indicazioni missionarie per i suoi apostoli, se è vero che ha indicato la ricchezza come un possibile ostacolo alla vita evangelica, è anche vero che mai Gesù ha lodato la povertà in sé, intesa come indigenza. Anzi, ha sempre invitato, sulla scia dell’Antico Testamento, a cercare di appianare le differenze sociali, difendendo poveri e vedove.
In molti attaccano le gerarchie ecclesiastiche (ma anche la Chiesa in genere) per lo sfarzo e la ricchezza, talvolta con qualche buon motivo, più spesso in maniera ideologica ed ottusa, dimenticando ad esempio che se tutte le realtà religiose che operano nel sociale pagassero l’ICI come invocato da molti, semplicemente non sarebbero in grado di portare avanti tante iniziative, che quindi chiuderebbero, non rimpiazzate da altro. Di fatto, se la Chiesa in Italia smettesse di fare opere sociali, ci sarebbe un crollo immediato di tutto il Welfare: basti pensare ad asili, ospedali, scuole, ospizi… ma a molti fa comodo vedere la propria piccola verità, senza fermarsi a cogliere tutti gli aspetti della questione. Molti preferiscono puntare i riflettori sulla Chiesa istituzione e spegnerli invece sulla Chiesa profetica (come se fossero due realtà distinte…!!!), quella che nel silenzio lava gli anziani e i barboni, quella che toglie gli aghi dalle vene dei tossici in overdose, quella di preti e vescovi che accolgono in casa famiglie sfrattate, quella di suore, religiosi e laici che spendono la vita per offrire una speranza a chi è nato già condannato. Chiaro che chi ragiona a compartimenti stagni, o è disinformato (magari inconsapevolmente), o ha secondi fini e una strategia ben chiara e determinata.
Tutto ciò per dire che povertà non è assenza di beni, né indigenza, bensì libertà dai condizionamenti e dai lacci di una vita compromessa. Chiara Amirante ha più volte ricordato che provare a vivere la povertà significa impegnarsi a sconfiggere tutti gli atteggiamenti e i comportamenti non sani che il tiranno del bisogno di avere ci porta ad assumere, impedendoci, di fatto, di essere in grado di amare veramente. Magari per noi che viviamo a Nuovi Orizzonti può essere facile vivere una certa povertà: molti di noi non hanno veramente nulla; i nostri armadi spesso si riempiono di vestiti che non passano alle casse dei grandi magazzini, ma semplicemente arrivano dentro un sacco al nostro cancello; i nostri frigoriferi non hanno salmone, caviale, o filetti di carne di prima qualità, anche se sicuramente nessuno è mai morto di fame! Eppure una povertà esteriore ha senso solo se diventa un tramite per la povertà interiore, che significa essere pronti a lasciare ciò che consideriamo proprietà privata, che sia una maglietta all’ultima moda o che sia un’idea, un’amicizia, o anche una spiritualità. Si può addirittura essere ricchi di Gesù Cristo, talmente gelosi della relazione che viviamo con Lui, da non volerne far parte con nessuno. Tralasciando che saremmo degli sciagurati se non gridassimo al mondo intero come si possa entrare in relazione profonda con Gesù dopo che l’avessimo scoperto, certamente non si può pensare che la povertà si debba fermare all’esteriorità: sarebbe l’ennesimo comportamento di facciata. Non è sufficiente spogliarsi dei beni se poi non si è disposti a spogliarsi di se stessi: il riferimento è Gesù Cristo, “il quale pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini” (Fil 2,6-8).
Ciò significa che anche chi ha ville e conti correnti può vivere la vera povertà, cioè usando dei beni, ma disposto a lasciarli in un solo attimo; anche chi è ricco economicamente può ambire a sviluppare in se stesso atteggiamenti di autentica povertà, riflessi di una capacità di amare gratuita e libera.
Anche alcuni ambienti ecclesiali corrono il rischio di essere ricchi, ad esempio della propria spiritualità: quanti carismi suscitati negli anni dallo Spirito Santo si sono spenti perché si sono chiusi al loro interno, non vivendo la logica della missionarietà che, per sua stessa natura, è povera perché gratuita e senza ricerca di tornaconti personali! Quante iniziative pastorali sono naufragate perché ideate con lo scopo di mantenere viva una struttura, un’iniziativa o un cammino associativo! Ciò che non è gratuito, povero e disinteressato non ha molto futuro.
Tutto questo è povertà: non misurabile a partire dal gonfiore del portafoglio, ma solo dall’apertura del cuore.
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