Ottobre, mese missionario, e per associazione di idee il nostro pensiero subito corre oltre le frontiere del nostro quotidiano e si dirige verso l’Africa, l’America Latina e l’Asia! Ci commuoviamo per le immagini di bimbi affamati, ammalati, abbandonati, di terre devastate dalla guerra e dalla miseria, che giornali e TV ci propongono e, nella migliore delle ipotesi, mettiamo mano al portafogli per fare un’offerta a qualche associazione umanitaria, compiliamo un modulo per l’adozione a distanza e rivolgiamo una preghiera a tutti coloro che partono per portare lì la Buona Novella, un cuore che ama e maniche rimboccate per lavorare alla costruzione di un mondo più giusto e fraterno. Ma tutto finisce qui, perché la missione non ci riguarda, non da vicino, non in prima persona: noi siamo figli di un Paese che, crisi o non crisi, non è certo il Terzo Mondo e che, comunque, conosce il Vangelo dal tempo degli Apostoli! Forse la pensavo così anch’io… e il cuore si accendeva di desiderio verso l’Africa e le sue necessità materiali e spirituali, ma qualche anno fa un articolo di un Missionario Saveriano mi ha cambiato la prospettiva: anziano, al ritorno in Italia per “riposarsi” dopo lunghi ed intensi anni vissuti in missione, ha scoperto che per tanti “cristiani” Gesù è uno “sconosciuto”…e che la sua missione non era finita, ma ne iniziava una ancora più impegnativa e delicata!
Non deve certo sorprenderci! Basta partecipare ad un matrimonio, Battesimo o funerale per rendersi conto che la maggior parte degli intervenuti non è “abituata” a frequentare le celebrazioni liturgiche e non riesce a coglierne il significato: lunghi silenzi invece delle risposte corali dell’assemblea, incertezza nell’alzarsi o sedersi, tre-quattro persone in fila per ricevere la Santa Comunione, disinteresse generale e chiacchierio di sottofondo, sfilate in giro per la chiesa, telefonini che squillano… Basta ascoltare un qualunque talk-show televisivo o semplicemente parlare con uno dei tanti atei, agnostici o cristiani non praticanti che ci circondano, per scoprire che l’ignoranza, l’abitudine, la nostra mancanza di slancio “missionario” e di adeguata formazione, la “dissociazione” tra il dire e la testimonianza di vita, comportano il dilagare di una mentalità “de-cristianizzata”! E non siamo al sicuro neanche noi “praticanti”, “barricati” nelle sacrestie delle nostre chiese: “Molti cristiani di oggi non si sentono coinvolti dalle parole di San Paolo perché non hanno fatto quella esperienza che è la ‘conversione’. Sono nati in un ambiente di fede e l’hanno più o meno assimilata. Non sanno cosa significa il fatto di essere non credenti e poi diventare credenti. Siamo stati battezzati da bambini, non c’è un tempo passato in cui non fossimo cristiani. Tuttavia non siamo cristiani per sempre, con una garanzia quasi automatica. Ogni giorno dovremmo sentire l’impegno tipico di uno che si converte. Quando commettiamo un peccato, facciamo un passo che ci estrania da Dio; quando ritorniamo a Dio, viviamo come una conversione.” (Carlo Buzzetti).
Siamo noi stessi “terra di missione”, bisognosi di conversione, di riscoprire la bellezza e la novità del Vangelo, di una catechesi adulta, della mano di Dio che sana le ferite dell’anima e dell’amore dei fratelli con i quali siamo in cammino, per aprirci contemporaneamente all’attenzione per l’altro e per le sue necessità, alla lotta contro le nuove povertà che si nascondono dietro l’apparente benessere ed autosufficienza di questa società.
Non deve certo sorprenderci! Basta partecipare ad un matrimonio, Battesimo o funerale per rendersi conto che la maggior parte degli intervenuti non è “abituata” a frequentare le celebrazioni liturgiche e non riesce a coglierne il significato: lunghi silenzi invece delle risposte corali dell’assemblea, incertezza nell’alzarsi o sedersi, tre-quattro persone in fila per ricevere la Santa Comunione, disinteresse generale e chiacchierio di sottofondo, sfilate in giro per la chiesa, telefonini che squillano… Basta ascoltare un qualunque talk-show televisivo o semplicemente parlare con uno dei tanti atei, agnostici o cristiani non praticanti che ci circondano, per scoprire che l’ignoranza, l’abitudine, la nostra mancanza di slancio “missionario” e di adeguata formazione, la “dissociazione” tra il dire e la testimonianza di vita, comportano il dilagare di una mentalità “de-cristianizzata”! E non siamo al sicuro neanche noi “praticanti”, “barricati” nelle sacrestie delle nostre chiese: “Molti cristiani di oggi non si sentono coinvolti dalle parole di San Paolo perché non hanno fatto quella esperienza che è la ‘conversione’. Sono nati in un ambiente di fede e l’hanno più o meno assimilata. Non sanno cosa significa il fatto di essere non credenti e poi diventare credenti. Siamo stati battezzati da bambini, non c’è un tempo passato in cui non fossimo cristiani. Tuttavia non siamo cristiani per sempre, con una garanzia quasi automatica. Ogni giorno dovremmo sentire l’impegno tipico di uno che si converte. Quando commettiamo un peccato, facciamo un passo che ci estrania da Dio; quando ritorniamo a Dio, viviamo come una conversione.” (Carlo Buzzetti).
Siamo noi stessi “terra di missione”, bisognosi di conversione, di riscoprire la bellezza e la novità del Vangelo, di una catechesi adulta, della mano di Dio che sana le ferite dell’anima e dell’amore dei fratelli con i quali siamo in cammino, per aprirci contemporaneamente all’attenzione per l’altro e per le sue necessità, alla lotta contro le nuove povertà che si nascondono dietro l’apparente benessere ed autosufficienza di questa società.