domenica 28 agosto 2011

Alcuni motivi per capire la centralità dell’Eucarestia (parte seconda)

L’attaccamento all’eucarestia è l’attaccamento a ciò che rende la nostra fede un fatto oggettivo e non soggettivo. Se non ci fosse l’eucarestia, cioè la presenza reale, sostanziale ed oggettiva di Cristo in quel pane, rischieremmo di credere a nostre idee, a nostre proiezioni, paure, insicurezze, sogni a cui abbiamo affibbiato l’appellativo di “Dio”. Inoltre la dinamica eucaristica ci inserisce in quel movimento ascendente che Gesù opera offrendo tutto al Padre. Cosa significa questo? L’offrire è la maniera attraverso cui ciò che abbiamo, ciò che siamo, ciò che facciamo lo esponiamo a Dio, lo diamo a Lui, lo consegniamo all’opera della Sua Grazia. Proprio come un panettiere che la farina, con l’acqua e il lievito, e dopo averlo lavorato e preparato ha bisogno di metterlo in un forno affinchè quel calore trasformi quel lavoro, quella farina, quel pane e quel lievito in pane, in cibo, in nutrimento, in qualcosa che non è più semplicemente la somma di ingredienti ma qualcosa di nuovo.
Offrire la nostra vita, le nostre azioni, le nostre scelte, ciò che siamo e abbiamo a Dio attraverso l’eucarestia, fà si che tutto questo diventi qualcos’altro, qualcosa di qualitativamente più grande, di nuovo, di meraviglioso. Anche i peccati, le sofferenze e i problemi se abbiamo il coraggio di offrirli sull’altare, li rendiamo strumenti di Grazia, feritoie aperte nell’eternità.
Altro elemento fondante della centralità eucaristica è dato dal legame che tutti i sacramenti hanno con essa. I tre sacramenti dell’iniziazione non vanno staccati, l’eucarestia conclude il percorso del cristiano adulto: è il sacramento della continuità dell’identità cristiana, battesimo e confermazione non potranno ripetersi. Il Vaticano II nella Presbyterorum ordinis n.5 sottolinea tre idee:
1) l’eucarestia è il centro dell’opera evangelizzatrice
2) l’eucarestia completa e realizza l’identità cristiana: si deve essere già battezzato e cresimato
3) la considerazione comunitaria: il pieno inserimento nel corpo di Cristo.
In passato l’eucarestia compiva l’itinerario sacramentale dell’iniziazione cristiana: il battesimo è una prima tappa, l’accoglienza cristiana si protrae con la confermazio­ne e si compie con l’eucarestia. L’eucarestia è il compimento, dà un senso ai due che l’hanno preceduto. L’eucarestia è la sor­gente, afferma Trento, gli altri sacramenti ne sono i fiumi. Parallelamente a Cristo che nasce nella carne, per opera dello Spirito, che realizza il suo essere sotto l’azione dello Spirito nell’annuncio del Vangelo e nell’offerta di se stesso, il cristiano nel battesimo passa alla esistenza nuova mediante lo Spirito, riceve un nuovo ruolo nella cresima per agire secondo lo Spirito; in modo da offrire con Cristo il suo sacrificio per l’inserimento pieno nel mistero pasquale celebrato nell’eucaristia.

martedì 23 agosto 2011

Quello che non vi dicono su Chiesa e denaro

Cari amici cattolici, vi sarà certamente capitato in questi giorni di ricevere critiche dal vostro amico non credente di turno (o credente ma non praticante, o credente praticante ma non osservante...) sul rapporto tra Chiesa e denaro, magari utilizzando i grandi cavalli di battaglia dei cari laicisti: esenzione ICI e 8xmille alla Chiesa cattolica, tra tutti.

Ebbene, se rientrate nella categoria di chi, in tale circostanza, non ha saputo rispondere alcunché (se non, con malcelato imbarazzo, che la Chiesa è fatta di peccatori), provo ad offrirvi alcuni spunti di riflessione. Intendiamoci, che la Chiesa sia fatta di peccatori è una verità e nessuno può metterla in discussione: che questo, però, significhi la irrimediabile verità di ogni critica, beh, forse qualche dubbio può sorgere anche ai non cristiani (detti anche, per un noto pseudo-matematico, non “cretini”).

Visto allora che la figura dei cretini a noi (a differenza di altri) non piace farla, vediamo di approfondire i termini della questione.

Questione ICI
Partiamo con il primo problema, peraltro recentemente tornato a galla dopo la decisione della Commissione europea di riaprire la procedura di infrazione nei confronti dell’Italia su questo punto.
Una premessa, a scanso di equivoci: la CEI e il Vaticano non sono la stessa cosa (sic!).
Con un po’ della vostra pazienza (vi assicuro che ne vale la pena) proviamo a capire come stanno le cose.

La legge
Nel 1992 lo Stato italiano ha istituito l’ICI, l’imposta comunale sugli immobili. Nello stesso intervento normativo (decreto legislativo n. 504/1992) sono state previste delle esenzioni: “alla Chiesa cattolica”, penserete subito. Sbagliato: l’esenzione ha riguardato tutti gli immobili utilizzati da un “ente non commerciale” e destinati “esclusivamente allo svolgimento di attività assistenziali, previdenziali, sanitarie, didattiche, ricettive, culturali, ricreative e sportive”.

Dunque, secondo la legge, perché venga applicata l’esenzione è necessario che si realizzino due condizioni:

1. Il proprietario dell’immobile deve essere un “ente non commerciale”, ossia non deve distribuire gli utili e gli avanzi di gestione ed è obbligato, in caso di scioglimento, a devolvere il patrimonio residuo a fini di pubblica utilità. In pratica tutto quello che un ente non commerciale “guadagna” (con attività commerciali, con richieste di rette o importi, con la raccolta di offerte, con l’autofinanziamento dei soci, con i contributi pubblici, ecc.) deve essere utilizzato per le attività che svolge e non può essere intascato da nessuno.

2. L’immobile deve essere destinato “esclusivamente” allo svolgimento di una o più tra le otto attività di rilevante valore sociale individuate dalla legge.

Evidente ed apprezzabile la finalità delle esenzioni: lo Stato ha voluto agevolare tutti quei soggetti che svolgono attività sociale secondo criteri di “no profit”.

La novità della Corte di cassazione
Ora, mentre per più di dieci anni queste norme sono state applicate dai Comuni senza alcun problema, i soliti noti hanno iniziato dei contenziosi e nel 2004 la Corte di Cassazione, pronunciandosi su un immobile di un istituto religioso destinato a casa di cura e pensionato per studentesse, ha fornito una interpretazione non prevista dalla legge (… tutto ciò non vi ricorda qualcosa?): i giudici infatti hanno aggiunto un nuovo requisito per avere diritto all’esenzione sia necessario anche che l’attività “non venga svolta in forma di attività commerciale”.

Quale è la novità? È chiaro che cambia tutto se si sposta l’attenzione dalla natura “commerciale” dell’ente proprietario (come richiesto dalla norma) alla natura della “attività commerciale” effettuata (come innovato dalla Corte). Per capire la singolarità della decisione si devono tenere presenti due aspetti:

1. dal punto di vista tecnico, le attività sono considerate commerciali non quando producono utili, ma quando sono organizzate e rese a fronte di un corrispettivo, cioè con il pagamento di una retta o in regime di convenzione con l’ente pubblico: è evidente che alcune delle attività elencate dalla legge (si pensi a quelle sanitarie o didattiche) di fatto non possono essere che “commerciali” in questo senso;

2. “commerciale” non vuol dire “con fine di lucro”: per la legge, infatti, è “commerciale” anche l’attività nella quale vengono chieste rette tanto contenute da non coprire neanche i costi: in pratica, l’esenzione perde ogni senso se interpretata così.

In parole povere, se chiedi anche un cent sei fuori dall’esenzione! E zac, rimane fuori praticamente tutto il no-profit! Via il bambino con l'acqua sporca (a scanso di equivoci, la Chiesa rientrerebbe ovviamente nella seconda voce).
Prima interpretazione autentica
Davanti agli effetti disastrosi che una tale interpretazione avrebbe creato nel mondo del “no profit”, lo Stato italiano è intervenuto con una interpretazione autentica (art. 7 del decreto legge n. 203/2005, governo Berlusconi), ribadendo la sufficienza dei due requisiti iniziali e stabilendo che, ai fini dell’esenzione dall’ICI, non rilevava l’eventuale commercialità della modalità di svolgimento dell’attività.

Denuncia della Commissione Europea
L’interpretazione autentica non deve essere piaciuta, poiché nello stesso anno questa disposizione è stata impugnata di fronte alla Commissione europea denunciandola come “aiuto di Stato”. In pratica, sul presupposto che gli enti non commerciali che svolgono quelle attività socialmente rilevanti sono comunque da considerare “imprese” a tutti gli effetti, si è sostenuto che l’esenzione costituirebbe una distorsione della concorrenza nei confronti dei soggetti (società e imprenditori) che svolgono le stesse attività con fine di lucro soggettivo.
Come a dire: perché mai deve essere agevolato chi offre servizi assistenziali senza guadagnarci (eh già, perché mai …?!).

Seconda intepretazione autentica e istituzione della Commissione ministeriale
Per escludere ogni dubbio lo Stato è intervenuto con una seconda interpretazione autentica (art. 39 del D.L. n. 223/2006, governo Prodi), con la quale è stato precisato che l’esenzione deve intendersi applicabile se l’attività è esercitata in maniera “non esclusivamente commerciale”. Il nuovo intervento appare molto equilibrato, perché precisa il senso dell’esenzione permettendo di evitare abusi.
Peraltro, presso il Ministero dell’economia e delle finanze è stata poi istituita una commissione con il compito di individuare le modalità di esercizio delle attività che, escludendo una loro connotazione commerciale e lucrativa, consenta di identificare gli elementi della “non esclusiva commercialità”.

Chiusura del fascicolo per due volte e recente riapertura
Alla luce della seconda interpretazione autentica e della maggiore definizione dei limiti grazie alla Commissione appositamente istituita, la Commissione europea ha chiuso la procedura di infrazione con esclusione di ogni “aiuto di Stato”. Successivamente ne è stata aperta un’altra, sempre sulla stessa linea, e anche questa è stata chiusa per chiara infondatezza.
Ad ottobre di quest’anno [2010], però, il Commissario europeo per la concorrenza (Joaquín Almunia, spagnolo, predecessore del simpatico Zapatero al partito socialista), nonostante le due archiviazioni ha riaperto una ennesima procedura di infrazione. Staremo a vedere.

Qualche riflessione
Bene. Ora abbiamo gli strumenti per rispondere alle gentili domande del nostro ipotetico (ma neanche tanto) amico.

- “L’esenzione è riservata agli enti della Chiesa cattolica”.
In realtà abbiamo visto che la legge destina l’esenzione a tutti gli enti non commerciali, categoria nella quale rientrano certamente gli enti ecclesiastici, ma che comprende anche: associazioni, fondazioni, comitati, onlus, organizzazioni di volontariato, organizzazioni non governative, associazioni sportive dilettantistiche, circoli culturali, sindacati e partiti politici (che sono associazioni), enti religiosi di tutte le confessioni e, in generale, tutto quello che viene definito come il mondo del “non profit”. Non si dimentichi inoltre che fanno parte degli enti non commerciali anche gli enti pubblici.

- “L’esenzione vale per tutti gli immobili della Chiesa cattolica”.
Come abbiamo evidenziato sopra, l’esenzione richiede la compresenza di due requisiti: quello soggettivo, dove rileva la natura del soggetto (essere “ente non commerciale”) e quello oggettivo, dove rileva la destinazione dell’immobile (utilizzarlo “esclusivamente” per le attività di rilevanza sociale individuate dalla legge ed in modo “non esclusivamente commerciale”). Non è vero, quindi, che tutti gli immobili di proprietà degli enti non commerciali (e, quindi, della Chiesa cattolica) sono esenti: lo sono solo se destinati alle attività sopra elencate. In tutti gli altri casi pagano regolarmente l’imposta: è il caso degli immobili destinati a librerie, ristoranti, hotel, negozi, così come delle case date in affitto.
- “L’esenzione vale per ogni imposta”.
In realtà l’esenzione dall’ICI (che è un’imposta patrimoniale) non ha alcun effetto sul trattamento riguardante le imposte sui redditi e l’IVA, né esonera dagli adempimenti contabili e dichiarativi. Infatti gli enti non commerciali, compresi quelli della Chiesa cattolica (parrocchie, istituti religiosi, seminari, diocesi, ecc.), che svolgono anche attività fiscalmente qualificate come “commerciali” sono tenuti al rispetto dei comuni adempimenti tributari e al versamento delle imposte secondo le previsioni delle diverse disposizioni fiscali.

- “Gli alberghi sono esenti”.
Attenzione, questa è insidiosa. Per dimostrare come l’esenzione prevista dalla norma sia iniqua, danneggi la concorrenza e non risponda all’interesse comune, viene citato il caso dell’albergo che, in quanto gestito da enti religiosi, sarebbe ingiustamente esente, a differenza dell’analogo albergo posseduto e gestito da una società.
Peccato, però, che l’attività alberghiera non rientra tra le otto attività di rilevanza sociale individuate dalla norma di esenzione. Perciò gli alberghi, anche se di enti ecclesiastici, non sono esenti e devono pagare l’imposta. Ad essere esenti sono, piuttosto, gli immobili destinati alle attività “ricettive”, che è ben altra cosa. Si tratta di immobili nei quali si svolgono attività di “ricettività complementare o secondaria”. In pratica, le norme nazionali e regionali distinguono fra ricettività sociale e turistico-sociale:

§ La prima comprende soluzioni abitative che rispondono a bisogni di carattere sociale, come per esempio pensionati per studenti fuori sede oppure luoghi di accoglienza per i parenti di malati ricoverati in strutture sanitarie distanti dalla propria residenza.

§ La seconda risponde a bisogni diversi da quelli a cui sono destinate le strutture alberghiere: si tratta di case per ferie, colonie e strutture simili.

Entrambe sono regolate, a livello di autorizzazioni amministrative, da norme che ne limitano l’accesso a determinate categorie di persone e che, spesso, richiedono la discontinuità nell’apertura. Se si verifica che qualche albergo (non importa se a una o a cinque stelle) si “traveste” da casa per ferie, questo non vuol dire che sia ingiusta l’esenzione, ma che qualcuno ne sta usufruendo senza averne diritto. Per questi casi i comuni dispongono dello strumento dell’accertamento, che consente loro di recuperare l’imposta evasa.

- “Basta una cappellina per ottenere l’esenzione”.
Questa è più simpatica che ridicola. È del tutto falso che una piccola cappella posta all’interno di un hotel di proprietà di religiosi renda l’intero immobile esente dall’ICI, in base al fatto che così si salvaguarderebbe la clausola dell’attività di natura “non esclusivamente commerciale”. È vero esattamente l’opposto: dal momento che la norma subordina l’esenzione alla condizione che l’intero immobile sia destinato a una delle attività elencate e considerato che – come abbiamo visto sopra – l’attività alberghiera non è tra queste, in tal caso l’intero immobile dovrebbe essere assoggettato all’imposta, persino la cappellina che, autonomamente considerata, avrebbe invece diritto all’esenzione.

- “Ma io conosco personalmente casi in cui quello che dici non viene applicato”.
Chi sbaglia, fosse anche membro della Chiesa cattolica, è tenuto a pagare, come qualsiasi altro cittadino che infrange la legge. Ciò non significa, tuttavia, che la legge sia per ciò solo sbagliata, non vi pare?

- "Persino l'Europa ci sta sanzionando".
L'europa ha aperto due procedure di infrazione e in entrambi i casi ha deciso per l'archiviazione. Una terza procedura è stata aperta ora da un soggetto dichiaratamente ostile alla Chiesa cattolica e la procedura è allo stato iniziale.
Ad ogni modo, l'Europa ha espresso dubbi sempre e solo con riferimento alla presenza o meno di "aiuti di Stato", ossia su presunti meccanismi distorsivi della concorrenza. Questione (peraltro già smentita due volte) che con i rapporti tra Stato e Chiesa nulla c'entra.

Riassumendo: il problema dell’esenzione dell’ICI alla Chiesa cattolica non è altro che un pretesto per attaccare quest’ultima ed è portato avanti con un accecamento pari solo all’odio per chi da due millenni proclama incessantemente Gesù Cristo al mondo intero. Basti pensare che, se venisse davvero meno l’esenzione per questi immobili perché ritenuta “aiuto di Stato”, si aprirebbe la strada all’abolizione di tutte le agevolazioni previste per gli enti non lucrativi, a partire dal trattamento riservato alle Onlus.
Ma questo non ditelo alle Onlus, loro sono meno misericordiose della Chiesa cattolica!

lunedì 22 agosto 2011

Dov'è il mio bacio?

C'era una volta una bambina che si chiamava Cecilia.
Il papà e la mamma della bambina lavoravano tanto.
La loro era una bella famiglia e vivevano felici.
Mancava solo una cosa, ma Cecilia non se ne era mai accorta.
Un giorno, quando aveva nove anni, andò per la prima volta a dormire a casa della sua amica Adele.
Quando fu ora di dormire, la mamma di Adele rimboccò loro le coperte e diede a ognuna il bacio della buonanotte.
"Ti voglio bene!" disse la mamma ad Adele. "Anch'io!" sussurrò la bambina.
Cecilia era così sconvolta che non riuscì a chiudere occhio.
Nessuno le aveva mai dato il bacio della buonanotte o le aveva detto di volerle bene.
Rimase sveglia tutta la notte, pensando e ripensando: "È così che dovrebbe essere".
Quando tornò a casa, non salutò i genitori e corse in camera sua.
Li odiava.
Perché non l'avevano mai baciata? Perché non l'abbracciavano e non le dicevano che le volevano bene?
Forse non gliene volevano?
Cecilia pianse fino ad addormentarsi e rimase arrabbiata per diversi giorni.
Alla fine decise di scappare di casa.
Preparò il suo zainetto, ma non sapeva dove andare!
Era bloccata per sempre con i genitori più freddi e peggiori del mondo.
All'improvviso, trovò una soluzione.
Andò dritta da sua madre e le stampò un bacio sulla guancia: "Ti voglio bene!".
Poi corse dal papà e lo abbracciò: "Buonanotte papà", disse, "Ti voglio bene!".
Quindi andò a letto, lasciando i genitori ammutoliti in cucina.
Il mattino seguente, quando scese per colazione, diede un bacio alla mamma e uno al papà.
Alla fermata dell'autobus si sollevò in punta di piedi e diede ancora un bacio alla mamma: "Ciao, mamma. Ti voglio bene!".
Cecilia andò avanti così giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese.
A volte, i suoi genitori si scostavano, rigidi e impacciati.
A volte ne ridevano. Ma Cecilia non smise. Aveva il suo piano e lo seguiva alla lettera.
Poi, una sera, si dimenticò di dare il bacio alla mamma prima di andare a letto.
Poco dopo, la porta della sua camera si aprì e sua madre entrò.
"Allora, dov'è il mio bacio?" chiese, fingendo di essere contrariata.
Cecilia si sollevò a sedere: "Oh, l'avevo scordato!".
La baciò e poi: "Ti voglio bene, mamma!".
Quindi tornò a coricarsi e chiuse gli occhi.
Ma la mamma rimase lì e alla fine disse: "Anch'io ti voglio bene!".
Poi si chinò e baciò Cecilia proprio sulla guancia.
Poi aggiunse con finta severità: "E non ti dimenticare più di darmi il bacio della buonanotte!".
Cecilia rise e promise: "No mamma, non succederà più!".

Oggi, qualcuno sta sicuramente aspettando il "suo" bacio, da te.

mercoledì 17 agosto 2011

Cuore

“Credo che un giorno, il tuo giorno, mio Dio avanzerò verso te con passi titubanti, con tutte le mie lacrime sul palmo della mano, ma anche con questo cuore meraviglioso che ci hai donato, questo cuore troppo grande per noi perché è fatto per te”. (J. Leclercq)

La parte di noi che porta impressa l’immagine e somiglianza di Dio non è tanto la ragione quanto il cuore. Perchè è nel cuore che sentiamo il senso o il non senso della vita. La ragione coglie il giusto e lo sbagliato. Il cuore invece coglie ciò che c’è sotto il vero, sotto la belezza, sotto la scorza delle cose che viviamo. E’ nel cuore che accade la vita. Un uomo senza cuore è solo vita biologica, sopravvivenza senza altro attributo, senza eternità, senza felicità. Anche perchè la felicità prima di essere pienezza è innanzitutto una ferita che ci portiamo dentro, un bisogno che ci spinge a cercare, una vuoto che cerchiamo di riempire scavando sotto le cose che viviamo. Il cuore ci rende umani. Forse è questo il motivo per cui come cristiani ci ricordiamo che anche Cristo aveva un cuore. Il nostro Dio non è un Dio “impassibile”, ma è un Dio “passibile”, passionale, ferito anche Lui da questa vulnerabilità che crea l’amare. La grandezza di Dio sta nel mettere da parte la Sua onnipotenza per mostrarsi invece fragile così com’è fragile ogni persona che decide di sentire la vita attraverso l’amore per ciò che è, per ciò che ha e per ciò che fa.

venerdì 12 agosto 2011

Le mani di Dio

Quando si dà la mano a Dio, egli non lascia tanto facilmente la presa! Lo incontrai a un ricevimento in suo onore credo una ventina d'anni fa. Gli confessai di aver letto quasi tutti i suoi romanzi e il suo immenso Journal e gli chiesi una sorta di sintesi del suo cristianesimo, abbracciato con passione dopo iniziali tormenti. Come ho spesso raccontato a vari miei ascoltatori e lettori, egli mi rispose con una battuta che è appunto nel suo diario: «Finché si è inquieti, si può stare tranquilli». Brillava in queste parole l'anima agostiniana della ricerca interiore, nella certezza che la tensione trepidante ci conduca a Dio (Inquietum est cor nostrum-delle Confessioni di sant'Agostino). Il nostro cuore non ha posa finché in Dio non riposa. È il momento di sciogliere il velo posto finora sull'autore della frase che oggi propongo alla riflessione comune. Si tratta dello scrittore francese (di genitori americani) Julien Green, vissuto lungo tutto il secolo scorso, dal 1900 al 1998, autore di tante opere tra le quali menziono solo la sua quasi confessione autobiografica elaborata nel bellissimo libro Terra lontana (1966). Ebbene, se la ricerca-pellegrinaggio sopra evocata ci conduce fino a Dio, e là offriamo liberamente e consapevolmente la mano a lui, egli non lascerà tanto facilmente quella stretta. È un simbolo, questo delle mani unite, che è retto da due componenti indispensabili, la libertà e la grazia. Dio è così grande da non aver bisogno di prevaricare sulla nostra autonoma scelta; ma è così legato alla sua creatura da non essere un puro e semplice notaio delle nostre decisioni. Siamo «opera delle sue mani», dice la Bibbia, e non così indifferentemente egli ci lascerà cader fuori dalle sue palme che ci sorreggono e riscaldano.

martedì 9 agosto 2011

La nuova creazione

L’anima unita e trasformata in Dio vive in Dio e per Dio, e riflette verso di lui lo stesso impulso vitale che egli le trasmette. […] Non bisogna ritenere impossibile che nell’anima avvenga una cosa tanto sublime. Infatti quando Dio le fa la grazia di giungere ad essere deiforme e unita con la Santissima Trinità, essa diventa Dio per partecipazione. Allora si rende possibile nell’anima un’altra vita intellettiva, conoscitiva e caritativa, realizzata nella Trinità, in unione con la Trinità e simile a quella della stessa Trinità (Dal “Cantico Spirituale” di san Giovanni della Croce (Red. A, str.38) in XVIII sett.del Tempo Ordinario, Venerdì, Liturgia delle Ore, Vol. IV).

Vivi quest’esperienza e trasmetterai l’esperienza di Cristo Risorto, di chi è Lui per te, sarà Lui stesso a farlo in te!

Farai incontrare il Risorto e darai Gesù agli altri e neppure tu saprai come. Risponderai alla domanda di tanti cuori assetati che, senza saperlo, gridano straziati: “Vogliamo vedere Gesù!” Questo perché tu e Lui sarete una cosa sola, tu in Lui e Lui in te. Compirà una nuova creazione, una rivoluzione cosmica nel tuo essere:

“Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura“ (Gal 6,14-15).

La TOB traduce: la nuova creazione, in greco ktisis ha il significato di creazione e di creatura.

Chiaro comunque è il senso delle parole di Paolo: il mistero della croce, la morte a se stessi uniti a Gesù crocefisso, ci unisce anche alla rinascita in Lui nella risurrezione rendendoci creature nuove, operando una creazione nuova in noi, l’identità cristica, l’essere Dio per partecipazione, figli nel Figlio.

Allora si tratta semplicemente di aprire il cuore ora a Dio, dicendoGli:
"Non sono capace, non so cosa debbo fare, ho paura… Ma voglio dirti il mio Sì, Signore! Compi in me una nuova creazione! Ricreami, Signore… perchè radicato/a in Te come il tralcio alla Vite, Tu possa attraverso di me portare la Rivoluzione dell’Amore!!!"

lunedì 8 agosto 2011

Alcuni motivi per capire la centralità dell’Eucarestia (parte prima)

L’eucarestia è fonte e culmine (fons et culmen) della vita cristiana (LG 11; PO 6). Nella santissima eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che, mediante la sua Carne vivificata e vivificante nello Spirito Santo, dà vita agli uomini i quali sono in tal modo invitati e indotti a offrire assieme a Lui se stessi, il proprio lavoro e tutte le cose create (PO 5). Queste parole del magistero, a prima vista possono risultare ampollose e poco aderenti alla nostra vita, ma una lettura più attenta di questo testo in realtà ci svela un significato profondo importantissimo. Innanzitutto definire l’eucarestia “fonte e culmine della vita cristiana”, significa riconoscere un vero punto di partenza e una vera meta.
In un cammino, come quello cristiano, è importante capire da dove si parte e verso dove si và, altrimenti si rischia di perdere tempo a girovagare per tentativi. La prima cosa da fare è prendere sul serio l’eucarestia. Molto del nostro cristianesimo crolla proprio perchè manca di un fondamento eucaristico. Senza l’eucarestia e i sacramenti in genere, il cristianesimo risulta retorica, mera filosofia che alle prime intemperie della vita si frantuma in mille pezzi. L’annuncio straordinario del Vangelo non è solo una questione di parole, ma sopratutto di fatti. L’eucarestia è un fatto che cambia la nostra vita e non è solo una serie di parole che la interpretano. Una conversione in tal senso ci aiuterebbe ad entrare più intimamente nel mistero della vita cristiana. Troppo spesso, infatti, riduciamo il fatto cristiano a sociologia, a psicoanalisi, a mera interpretazione. Cristo non si limita a interpretare la nostra vita, la salva. E questa salvezza implica anche un riempirla di significato. Motivo per cui il testo citato all’inizio dice che: “Nella santissima eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua e pane vivo che, mediante la sua Carne vivificata e vivificante nello Spirito Santo, dà vita agli uomini”.

mercoledì 3 agosto 2011

Quel respiro chiamato preghiera

“Giovane, non dimenticare la preghiera. In essa, se è sincera, fa capolino ogni volta un nuovo sentimento, e in questo anche un nuovo pensiero, che tu prima ignoravi e che ti riconforterà; e tu comprenderai che la preghiera è un’educazione. Ricordati ancora di ripetere in te tutti i giorni, e ogni qual volta puoi: Signore abbi pietà di quanti sono oggi comparsi dinnanzi a Te. Perché ad ogni ora, ad ogni istante migliaia di uomini terminano la loro vita su questa terra e le anime loro si presentano al Signore, e quanti di essi lasciano la terra solitariamente, all’insaputa di tutti, nella tristezza e nell’angoscia, perché nessuno li piange e nemmeno sa se abbiano vissuto o no! Ora può darsi che dall’estremo opposto della terra si innalzi al Signore la tua preghiera per la pace di un altro, benché tu non abbia conosciuto affatto lui, né lui te. Come si intenerirà la sua anima, quando, comparsa trepidante dinnanzi al Signore, sentirà in quell’attimo che c’è chi prega per lei, che è rimasto sulla terra un essere umano che ama lei pure. E Dio vi guarderà entrambi più benignamente; se tu stesso infatti hai avuto tanta pietà dell’altro, quanta più ne avrà Egli, che di misericordia e di amore ne ha infinitamente più di te? E gli perdonerà in grazia tua.” (I Fratelli Karamazov di F.M. Dostoevskij)
Una delle esperienze più belle della lettura è stata per me quella di Dostoevskij. In lui ho trovato colui che sapeva dar voce a quella parte dell’anima che rimaneva soffocata dalla mancanza di vocaboli, di immagini che le permettessero di raccontarsi, di esprimersi. E oggi ho voluto riportare una citazione che avevo sottolineato in uno dei suoi libri più belli: I fratelli Karamazov. La preghiera, ovviamente, è molto di più di ciò che lui scrive, ma mi accorgo di come sia ormai stata archiviata a una pia pratica da esercitarsi svogliatamente e secondo schemi scaramantici in luoghi ben definiti. La preghiera è una forma di respiro. E’ la maniera attraverso cui la vita, le cose, gli altri entrano dentro di noi e ne riescono nuovi, carichi di senso, splendenti di una presenza che risiede nella nostra interiorità. Si, perchè la prima caratteristica della preghiera è quella di scavare una profondità dentro di noi capace di ospitare e far sedimentare le cose belle e brutte che viviamo. La preghiera è il luogo dove la ragione diventa intelligenza, cioè capacità di saper leggere dentro (intus legere) le cose, gli eventi e i rapporti. La preghiera è il luogo dove il cuore smette di essere semplicemente sentimento e diventa scelta. Senza la preghiera noi non diventiamo noi stessi ma rimaniamo materia grezza segnata (o sfregiata) dall’esperienze delle vita. In ultima analisi, la preghiera è un rapporto con Qualcuno e non semplicemente attività di verifica attorno a certi valori. Dico ciò perchè molto spesso confondiamo i nostri esami di coscienza fatti davanti alla lavagna della nostra scala di valori con l’attività della preghiera. Essa è una compagnia che cambia, fatta di parole, di silenzi, di domande, di sorrisi, di pianti, di richieste, di fiducia, di scelte. Mai però in solitudine, ma sempre davanti e con Qualcuno. Il Suo nome è Gesù, il Cristo di Dio, l’Emmanuele, il Dio con noi.
“Se non mi ascolta più nessuno, Dio mi ascolta ancora. Se non posso più parlare con nessuno, più nessuno invocare, a Dio posso sempre parlare. Se non c’è più nessuno che possa aiutarmi – dove si tratta di una necessità o di un’attesa che supera l’umana capacità di sperare – Egli può aiutarmi. Se sono relegato in estrema solitudine…; ma l’orante non è mai totalmente solo.”(Benedetto XVI, Spes salvi)
Don Luigi Maria Epicoco