lunedì 28 febbraio 2011

Alla fine li hanno cacciati

Poteva sembrare una bestemmia che "scappa" e ce se ne accorge dopo oppure una parola mal pronunciata e mal intesa e invece a più di qualcuno si e insinuato il dubbio che sia un incidente programmato e messo in scena al momenta opportuno per fare ascolti e tenere accesi i riflettori. L'ha pensata cosi anche il direttore dell’Avvenire, il quotidiano dei nostri vescovi, Marco Tarquinio, a proposito di quello che è successo nella trasmissione Grande Fratello. E non è la prima volta e neppure nelle prime puntate, ma puntualmente quando il gradimento della trasmissione comincia a ondeggiare. I tre interessati cacciati sono convinti che siano stati gli "effetti mediatici" a sancire la loro esclusione. Ma effetti mediatici sono anche ritorno pubblicitario. Moralmente bisogna distinguere tra bestemmia e bestemmia: c'e chi lo fa senza rendersi conto e senza volerlo, come intercalare di pessima educazione e volgarità. Ce invece chi le dice "scientificamente", volendo bestemmiare, senza pudore e rispetto. Se sul piano etico bisogna introdurre una sorta di "gradualità", su quello umano e comportamentale non ci sono attenuanti. Se poi, invece di restare nell'ambito privato si amplifica davanti al pubblico televisivo, allora le conseguenze e le responsabilità sono ancora maggiori.
Marco Tarquinio sottolineava: mentre nel mondo ci sono decine di milioni di persone che soffrono e vengono uccise per la loro fede, mentre ci sono cristiani condannati a morte per blasfemia solo perchè non rinunciano alla nostra fede in Gesù Cristo, in Italia - culla del cristianesimo e cuore della cattolicità - non si fa solo spettacolo dell'offesa a Dio e alla buona edu¬cazione che accomuna credenti e non credenti, ma si mette in scena anche il rito dell'indulgenza verso un'autentica blasfemia espressa nella sua forma più volgare e urtante".
Confesso la mia più totale e assoluta allergia allo spettacolo il Gran¬de Fratello e trovo sostegno in molti che lo considerano oggettivamente offensivo per i valori negativi che esprime e per le deprimenti situazioni che mostra, diffondendo una cultura fatua, insulsa, ipocrita e priva di realtà, fortemente diseducativa. Mi rimase impresso il titolo che i Corriere della Sera dedicò al confronto tra una trasmissione Rai dedicata a Lourdes in occasione del centenario delle apparizioni e lo spettacolo di Mediaset trasmessi nella stessa serata: "Grande Fra¬tello batte Lourdes". La differenza era di poche migliaia di spettatori. La sorpresa non era per i pochi spettatori interessati alla trasmissione religiosa, ma per i cinque milioni e quattrocento mila che passavano la serata a guardare la vita dal buco della serratura di pochi bamboccioni. Scandalizzarci e protestare per una bestem¬mia è troppo poco, è I'esistenza di ben 11 anni del Grande Fratello la vera offesa e insulto al pubblico televisivo. E rifiutando certi programmi tv è I'arma più forte di cui disponiamo. Manifestando il mio disappunto ad un giornale serio per lo spazio che dava ogni giorno alla trasmissione, mi vidi rispondere: ci sono alcuni che la pensano come lei, altri che la pensano esattamente al contrario. Appunto, ne sono convinto.

domenica 27 febbraio 2011

La grotta azzurra

Era un uomo povero e semplice. La sera, dopo una giornata di duro lavoro, rientrava in casa spossato e pieno di malumore. Guardava con asilo la gente che passava in automobile o quelli seduti ai tavolini dei bar."Quelli sì che stanno bene", brontolava l'uomo, pigiato nel tram, come un grappolo d'uva nel torchio. "Non sanno che cosa vuol dire tribolare... Tutto rose e fiori, per loro. Avessero la mia croce da portare!".
Il Signore aveva sempre ascoltato con molta pazienza i lamenti dell'uomo. E, una sera, lo aspettò sulla porta di casa.
"Ah, sei tu, Signore?", disse l'uomo, quando lo vide. "Non provare a rabbonirmi. Lo sai bene quant'è pesante la croce che mi hai imposto". L'uomo era più imbronciato che mai.
Il Signore gli sorrise boriariamente. "Vieni con me. Ti darò la possibilità di fare un'altra scelta", disse.
L'uomo si trovò all'improssivo dentro una enorme grotta azzurra. L'architettura era divina. Ed era piena di croci: piccole, grandi, tempestate di gemme, lisce, contorte.
"Sono le croci degli uomini", disse il Signore. "Scegline una".
L'uomo buttò con la malagrazia la sua croce in un angolo e, fregandosi le mani, cominciò la cernita.
Provò una croce leggerina, ma era lunga e ingombrante. Si mise al collo una croce da vescovo, ma era incredibilmente pesante di responsabilità e di sacrificio. Un'altra, liscia e graziosa in apparenza, appena fu sulle spalle dell'uomo cominciò a pungere come se fosse piena di chiodi. Afferrò una croce d'argento, che mandava bagliori, ma si sentì invadere da una straziante sensazione di solitudine e di abbandono. La posò subito. Provò e riprovò, ma ogni croce aveva qualche difetto.
Finalmente, in un angolo semibuio, scovò una piccola croce, un po' logorata dall'uso. Non era troppo pesante, né troppo ingombrante. Sembrava fatta apposta per lui. L'uomo se la mise sulle spalle con aria trionfante. "Prendo questa!", esclamò. Ed uscì dalla grotta.
Il Signore gli rivolse il suo sguardo dolce dolce. E in quell'istante l'uomo si accorse che aveva ripreso proprio la sua vecchia croce: quella che aveva buttato via entrando nella grotta. E che portava da tutta la vita.

giovedì 24 febbraio 2011

Il molto e il buono

Non è il molto quel che si apprezza; è il buono. I libri sono come le anime, la cui grandezza non si misura dalla mole del corpo, ma dalla nobiltà degli spiriti. C'è una legge che sta imperando nella comunicazione contemporanea ed è quella dell'eccesso. Bisogna aggiungere sempre più spazio ai prodotti: così, l'eros lentamente decade in pornografia, il giallo in violenza gratuita, il dibattito in lite, la protesta in insulto, la polemica in attacco personale e così via. Lo scrittore Italo Calvino, nelle sue Lezioni americane, ricordava che il vero artista (ma anche l'uomo sapiente) è colui che opera come lo scultore che toglie e non aggiunge. Dal blocco di marmo elimina tutto ciò che è inutile rispetto alla statua che è idealmente nascosta in quella pietra. Lo stesso concetto lo esprime in modo più immediato Daniello Bartoli, gesuita ferrarese vissuto nel Seicento, storico e grammatico, nell'opera L'uomo di lettere difeso ed emendato, da cui abbiamo desunto la citazione odierna. Non è la mole che conta ma l'interiorità; non è la quantità che dovrebbe prevalere, bensì la qualità; non sono gli orpelli ma la sostanza ad assegnare valore a una persona o a un'opera; non è l'erudizione a fare lezione ma la saggezza che guida e illumina. Eppure, se siamo sinceri, a dominare ai nostri giorni è il troppo: invidiato è chi possiede tanto, chi prevarica con la parola e l'azione, chi incombe con la sua immagine e il successo. Dovremmo, invece, ritrovare la finezza della discrezione, il gusto della riflessione, la dignità del comportamento morale. Il poeta indiano Tagore pregava Dio di non lasciarlo smarrire «tra i grattacieli delle cose inutili», dimenticando la strada di casa. E per stare ai libri, potremmo finire con una fulminante recensione di Ennio Flaiano: «È un libro ponderoso. Che fa pensare. Ad altro».

mercoledì 23 febbraio 2011

La libertà di essere poveri

Povertà, castità e obbedienza: i tre classici impegni di vita evangelica, che diventano voti per i religiosi, ad un’analisi superficiale sembrano essere appannaggio di pochi, un privilegio o un’autocondanna, una soluzione di comodo oppure un onere di facciata. Per qualcuno, povertà fa rima con disgrazia, castità con castrazione, obbedienza con debolezza. Concetti precisi e condivisibili se il cristianesimo è concepito come la religione della sottrazione e non della pienezza.

Se già qualcosa ho detto a proposito della castità, mi piace oggi fermarmi sulla povertà. A molti fa paura, ad altri piacerebbe invece vivere una “povertà controllata”, cioè desiderano stare lontani dalle preoccupazioni che una vita agiata porta con sé. Ma cos’è la povertà? Per Gesù è una virtù o uno svantaggio?

Se è vero che Gesù ha parlato di povertà materiale all’interno delle indicazioni missionarie per i suoi apostoli, se è vero che ha indicato la ricchezza come un possibile ostacolo alla vita evangelica, è anche vero che mai Gesù ha lodato la povertà in sé, intesa come indigenza. Anzi, ha sempre invitato, sulla scia dell’Antico Testamento, a cercare di appianare le differenze sociali, difendendo poveri e vedove.

In molti attaccano le gerarchie ecclesiastiche (ma anche la Chiesa in genere) per lo sfarzo e la ricchezza, talvolta con qualche buon motivo, più spesso in maniera ideologica ed ottusa, dimenticando ad esempio che se tutte le realtà religiose che operano nel sociale pagassero l’ICI come invocato da molti, semplicemente non sarebbero in grado di portare avanti tante iniziative, che quindi chiuderebbero, non rimpiazzate da altro. Di fatto, se la Chiesa in Italia smettesse di fare opere sociali, ci sarebbe un crollo immediato di tutto il Welfare: basti pensare ad asili, ospedali, scuole, ospizi… ma a molti fa comodo vedere la propria piccola verità, senza fermarsi a cogliere tutti gli aspetti della questione. Molti preferiscono puntare i riflettori sulla Chiesa istituzione e spegnerli invece sulla Chiesa profetica (come se fossero due realtà distinte…!!!), quella che nel silenzio lava gli anziani e i barboni, quella che toglie gli aghi dalle vene dei tossici in overdose, quella di preti e vescovi che accolgono in casa famiglie sfrattate, quella di suore, religiosi e laici che spendono la vita per offrire una speranza a chi è nato già condannato. Chiaro che chi ragiona a compartimenti stagni, o è disinformato (magari inconsapevolmente), o ha secondi fini e una strategia ben chiara e determinata.

Tutto ciò per dire che povertà non è assenza di beni, né indigenza, bensì libertà dai condizionamenti e dai lacci di una vita compromessa. Chiara Amirante ha più volte ricordato che provare a vivere la povertà significa impegnarsi a sconfiggere tutti gli atteggiamenti e i comportamenti non sani che il tiranno del bisogno di avere ci porta ad assumere, impedendoci, di fatto, di essere in grado di amare veramente. Magari per noi che viviamo a Nuovi Orizzonti può essere facile vivere una certa povertà: molti di noi non hanno veramente nulla; i nostri armadi spesso si riempiono di vestiti che non passano alle casse dei grandi magazzini, ma semplicemente arrivano dentro un sacco al nostro cancello; i nostri frigoriferi non hanno salmone, caviale, o filetti di carne di prima qualità, anche se sicuramente nessuno è mai morto di fame! Eppure una povertà esteriore ha senso solo se diventa un tramite per la povertà interiore, che significa essere pronti a lasciare ciò che consideriamo proprietà privata, che sia una maglietta all’ultima moda o che sia un’idea, un’amicizia, o anche una spiritualità. Si può addirittura essere ricchi di Gesù Cristo, talmente gelosi della relazione che viviamo con Lui, da non volerne far parte con nessuno. Tralasciando che saremmo degli sciagurati se non gridassimo al mondo intero come si possa entrare in relazione profonda con Gesù dopo che l’avessimo scoperto, certamente non si può pensare che la povertà si debba fermare all’esteriorità: sarebbe l’ennesimo comportamento di facciata. Non è sufficiente spogliarsi dei beni se poi non si è disposti a spogliarsi di se stessi: il riferimento è Gesù Cristo, “il quale pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini” (Fil 2,6-8).

Ciò significa che anche chi ha ville e conti correnti può vivere la vera povertà, cioè usando dei beni, ma disposto a lasciarli in un solo attimo; anche chi è ricco economicamente può ambire a sviluppare in se stesso atteggiamenti di autentica povertà, riflessi di una capacità di amare gratuita e libera.

Anche alcuni ambienti ecclesiali corrono il rischio di essere ricchi, ad esempio della propria spiritualità: quanti carismi suscitati negli anni dallo Spirito Santo si sono spenti perché si sono chiusi al loro interno, non vivendo la logica della missionarietà che, per sua stessa natura, è povera perché gratuita e senza ricerca di tornaconti personali! Quante iniziative pastorali sono naufragate perché ideate con lo scopo di mantenere viva una struttura, un’iniziativa o un cammino associativo! Ciò che non è gratuito, povero e disinteressato non ha molto futuro.

Tutto questo è povertà: non misurabile a partire dal gonfiore del portafoglio, ma solo dall’apertura del cuore.

martedì 22 febbraio 2011

Glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri

È di somma opportunità che teniamo di mira lo stesso Gesù come insuperabile modello di amore verso la Chiesa. Anzitutto, cerchiamo d'imitare l'estensione di tale amore. Unica è la Sposa di Cristo, e questa è la Chiesa: eppure l'amore dello Sposo divino ha tale ampiezza che, senza escludere alcuno, nella sua Sposa abbraccia tutto il genere umano. La causa infatti per cui il Salvator nostro sparse il suo sangue, fu appunto per riconciliare con Dio nella croce tutti gli uomini, per quanto diversi di nazione e di stirpe, e farli congiungere in un unico Capo. Il vero amore della Chiesa esige quindi non solo che siamo vicendevolmente solleciti l'uno dell'altro (Rm 12,5), come membri dello stesso Corpo, che godono della gloria degli altri membri e soffrono dell'altrui dolore (1 Cor 12,26), ma che altresì negli altri uomini, sebbene non ancora a noi congiunti nel Corpo della Chiesa, riconosciamo fratelli di Cristo secondo la carne, chiamati insieme con noi alla medesima eterna salvezza.

Purtroppo, specialmente oggigiorno, non mancano coloro che nella loro superbia esaltano l'avversione, l'odio, il livore come qualcosa che elevi e nobiliti la dignità e il valore umano. Noi però, mentre vediamo con dolore i funesti frutti di tale dottrina, seguiamo il nostro pacifico Re, che ci insegnò ad amare non solo quelli che non sono della nostra nazione e della nostra stirpe (Lc 10,33-37), ma persino i nemici (Lc 6,27-35). Noi, con l'animo penetrato del soavissimo sentimento di san Paolo, con lui esaltiamo quale e quanta sia la lunghezza, la larghezza, l'altezza e la profondità dell'amore di Cristo (Ef 3,18); quell'amore, cioè, che nessuna diversità d'origine e di costumi può fiaccare, che neppure l'immensa distesa dell'oceano può attenuare; e che finalmente neppure le guerre, siano esse intraprese per causa giusta o ingiusta, potranno mai distruggere.

meditazione di Pio XII, papa dal 1939 al 1958

domenica 20 febbraio 2011

Gioire dei doni della vita

Tutti sappiamo che vi sono sistemi semplici e di straordinaria efficacia per trasmettere principi di saggezza. Spesso il mezzo non è neanche la parola ma piuttosto un’immagine di percezione immediata, desunta dalla verità e dalla concretezza della vita di ogni giorno. Cito, al proposito, il ben noto esempio del bicchiere che contiene un liquido che ne occupa lo spazio fin solo a metà, e che è visto da alcuni come mezzo pieno, da altri come mezzo vuoto. Ho l’impressione che i secondi siano assai più numerosi dei primi, contribuendo, in questo modo, a porre sempre più in basso il livello di serenità del quale avremmo bisogno per trascorrere un po’ in pace i giorni ai noi concessi.
Intendiamoci. Ci sono, al riguardo, comportamenti anche peggiori e più gravi. C’è, infatti, qualcuno che non sembra vedere proprio nulla nel bicchiere di cui stiamo parlando. Se discorre di sé, ha un elenco senza fine di guai da descrivere, con gioia suprema di chi è costretto all’ascolto. Se questi poi – sventurato – risponde cercando, con garbo e buoni argomenti, di mostrare che, ad essere concreti e realisti, i guai descritti sono più sentiti che veri, la situazione precipita. Su di lui peserà con forza irrevocabile un giudizio di aspra condanna per l’insensibilità del suo animo e l’incapacità di essere solidale con il prossimo.
C’è anche però (la realtà, in certi casi, è più sconcentante della fantasia) chi sembra aver fatto voto di vedere il bicchiere sempre pieno e, anzi, colmo di nettare e di ambrosia, soprattutto se il discorso ha per tema le proprie qualità e i successi conseguiti in ogni ambito della società e del lavoro. Gli individui combinati in questo modo non sono numerosissimi, grazie al Cielo, soprattutto se ci si ferma ai casi di pacchiana evidenza. La situazione muta, però, quando questi soggetti mirano a ben precisi traguardi, camuffandosi e mentendo per determinati scopi e con lucida volontà di trarre in inganno. Viene allora da dire che i primi, fino a un certo punto, sono quasi divertenti e, persino, oggetto di tenerezza, soprattutto quando si riesce, con sottile ironia, a farli stare in orbita, cioè nei solchi della loro ingenua e pur sofferta autoreferenzialità. Per gli altri il discorso è diverso, e, in certo senso, più facile. Basta dire che vanno evitati, almeno fin che si può.
Tornando al nostro bicchiere, sarà bene, dunque, disporre lo spirito a guadarsi dagli errori di cui si è detto. Mirando a ciò che è positivo, mi sembra saggio suggerire di volgere lo sguardo soprattutto alla parte del bicchiere che è occupata, senza dimenticare, ovviamente, la zona in cui c’è il vuoto. Guai se perdessimo la capacità di gioire accogliendo i doni della vita così come essi sono, accettandone anche le imperfezioni e i limiti, ma con attenzione a ciò da cui possiamo essere davvero aiutati e sorretti. Non dimentichiamo, ad esempio, che l’esperienza di limpidi affetti e il prodigio di amicizie vissute con serena e vicendevole oblatività, sono àncore di vita e di salvezza. Pensiamo anche agli splendori raggiunti dall’uomo nelle arti, nella musica e nella poesia. Sono doni offerti a tutti e oggi, più che mai, è possibile entrare nella magia di questi mondi. Il dono più grande è, però, pur sempre la speranza di giungere alla meta, dopo le fatiche del pellegrinaggio a cui, quaggiù, siamo stati chiamati.

sabato 19 febbraio 2011

Al telefono

Il Padreterno è al telefono da un pezzo, molto attento a quanto dice il suo interlocutore dall'altro lato del filo. Annuisce, sorride, gesticola come se disegnasse nell'aria qualcosa.
L'angiolino segretario socchiude la porta e gli fa cenno che sull'altra linea c'è... Ma il Padreterno fa un gesto con la mano per fargli capire di non interrompere, mentre continua ad annuire, a sorridere e a ridere di cuore.
Il segretario torna nell'altra stanza. "Il Padreterno è molto occupato" dice "Non lo si può interrompere." "Ma glielo hai detto che al telefono c'è il Papa?"
"Non me ne ha dato il tempo..." "Prova a farglielo dire dalla Beata Vergine, piccolino" dice il Papa. L'angiolino va a chiamare la Beata Vergine che va, con tutta dolcezza e discrezione, a bussare alla porta dello studio del Padreterno. La socchiude appena. Lui le fa una strizzatina d'occhio e il gesto di pazientare.
La Beata Vergine capisce al volo e richiude dolcemente la porta.
"è impossibile" dice "Si tratta di una persona veramente importante." L'angiolino va a riferire al Papa che aspetta all'altro telefono con una certa impazienza.
"Oh, Signore!" supplica il Santo Padre. "Va' a cercare San Giuseppe, fa' entrare in azione Sant'Antonio, vedi se c'è da qualche parte Papa Giovanni... Sbrigati! Sono affari importanti, affari della Chiesa!"
Dietro la porta dello studio del Padreterno si è formata una piccola folla di Santi. Ma non c'è nulla da fare: appena qualcuno socchiude l'uscio, Lui fa cenno di non interrompere e di chiudere.
Finalmente posa il ricevitore e si butta indietro sulla sua poltrona.
"O quella Valentina! Quella Valentina! ... " ride divertito. "Ogni sera mi deve raccontare per filo e per segno che cosa ha fatto in tutta la giornata!" Suona il campanello. Entra l'angelo segretario.
"Chi era all'altro telefono?" chiede curioso il Padreterno.
"Il Papa."
"E ora dov'è?"
"Si è ritirato. Ha detto che andava a rileggersi "La notte oscura" di S. Giovanni della Croce ... "
"Presto, portagli da parte mia questo biglietto."
Parla a voce alta mentre scrive:
"Affido alla carità del Papa Valentina: quattro anni, madre prostituta, padre carcerato, abitazione "baracche dell'Acquedotto Felice." E rassicuralo. Stia contento: il Padreterno gli vuole sempre un gran bene, anche se a volte sembra un pochino distratto.

giovedì 17 febbraio 2011

Vedere le cose

Sospetto che il bambino colga il suo primo fiore con una percezione della sua bellezza e del suo significato che il futuro botanico non conserverà mai più. Così annotava nel suo diario, il 5 febbraio 1852, lo scrittore americano Henry David Thoreau. Devo confessare di essere sempre conquistato dal modo di giocare di un bambino: prima che sia pervertito dalla playstation e dai giochi elettronici, egli si accosta a un oggetto con una sorprendente girandola di gesti, di movimenti, di sguardi. Egli compie veramente l'atto primordiale dell'affacciarsi sul mondo con meraviglia per scoprirne le meraviglie («il mondo perirà per mancanza di meraviglia, non di meraviglie», osservava acutamente lo scrittore inglese Chesterton). È ciò che noi, frettolosi consumatori di tecnologia, non proviamo più. Siamo forse capaci di «vedere un mondo in un granello di sabbia, e un cielo in un fiore selvaggio, l'infinito in un palmo di mano e l'eternità in un'ora?», come cantava il poeta inglese William Blake? Il botanico non ha più nulla dello stupore del bambino davanti al fiore, alla sua corolla, ai suoi colori. Egli classifica, cataloga, notomizza, disseziona, verifica, esamina, ma non riesce più a godere il fascino della bellezza. Il poeta irlandese contemporaneo - sono i veri poeti i grandi maestri della contemplazione - Seamus Heaney, Nobel 1995, ha intitolato una sua raccolta Seeing Things. Sì, abbiamo bisogno di ritornare a «vedere le cose», anzi - come sottintende la frase inglese - ad «avere la visione» profonda della realtà, dei volti, degli oggetti, dei segni, dei colori, della vita. E per far questo bisogna sapersi fermare, sostare, stare in silenzio, contemplare.

mercoledì 16 febbraio 2011

E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva molto soffrire

Non dobbiamo vergognarci della croce del Salvatore, ma anzi gloriarcene. Perché se è vero che la parola della croce è « scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani » (1 Cor 1, 18.23), per noi è fonte di salvezza. Se per quelli che vanno in perdizione è stoltezza, per noi che siamo stati salvati è fortezza di Dio. Infatti non era un semplice uomo colui che diede la vita per noi, bensì il Figlio di Dio, Dio fatto uomo. Se una volta quell'agnello, immolato secondo la prescrizione di Mosè, teneva lontano l'angelo sterminatore, non dovrebbe avere maggior efficacia per liberaci dai peccati « l'Agnello che toglie il peccato del mondo » (Gv 1, 29) ?

Sì, Gesù ha veramente sofferto per tutti gli uomini. La croce non era un simulacro. Altrimenti anche la redenzione sarebbe stato un simulacro. La morte non era un'illusione ; la Passione fu reale. Cristo è stato veramente crocifisso ; non dobbiamo vergognarcene. È stato crocifisso ; non dobbiamo negarlo. Anzi, lo dico con fierezza...Riconosco la croce perché ho conosciuto la risurrezione. Se il crocifisso fosse rimasto nella morte, forse non avrei riconosciuto la croce e l'avrei nascosta, come pure avrei nascosto il mio Maestro. Invece la risurrezione ha fatto seguito alla croce, e non mi vergogno di parlare di essa.

meditazione di
San Cirillo di Gerusalemme (313-350),
vescovo di Gerusalemme, dottore della Chiesa

I segni...

In diverse persone mi hanno sollecitato all’interpretazione di segni sovrannaturali nella propria vita. Non escludo affatto che ci siano! San Paolo dice: “Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male” (1Ts5,19-22).

I segni esistono e lo Spirito soffia dove vuole! Ma credo che al sovrannaturale bisogni dare un peso giusto. Oggi si cerca molto qualcosa di emotivo, di sconvolgente, proprio come ai tempi di Gesù… perdendo di vista la quotidianità insegnataci dal tempo della vita a Nazareth di Gesù e dal suo essere pienamente uomo immerso nel suo tempo e nelle relazioni umane.

Molti studiosi in campo mistico affermano che le apparizioni, e quanto sfiora o tocca i nostri sensi, siano realtà molto facilmente scimmiottabili dal diavolo e date a chi ha bisogno di tali manifestazioni in un determinato momento storico salvifico, pertanto le inquadrano tra il livello più basso di rivelazione. Una fede viva e fervente non necessita di segni. Chi ama non ha bisogno di segni. Anche tra due innamorati sicuramente una rosa o un segno d’affetto fa piacere, ma non aumenta l’amore e la certezza dello stesso se questo è radicato.

Un bambino che nasce dove è visibile attraverso la somiglia con i genitori queell’immagine e somiglianza che Dio sempre ci dona, forse non è un segno? Un tramonto pieno di poesia e carico di mistero forse non può indurci a pensare quanto grande possa essere Colui che ha creato tutto questo? Le infinite operazioni che si compiono in ogni istante nel nostro corpo, il respiro che abbiamo, il battito del cuore, …il microcosmo e il macrocosmo perfettamente concepiti… tutto ciò che possiamo percepire dentro e fuori di noi ora… non bastano per credere? Chiara Amirante spesso dice che ci vuole più fede per non credere che per credere, aggiungendo che chi non crede si basa su teorie, su idee filosofiche con pretesa di autoaffermaizone, chi crede invece si basa su esperienze, seppur personali, vive e autentiche!

Il sole che al mattino sorge forse non è un segno dell’Amore di Dio? A me basta vederne uno per sentirmi riscaldare il cuore, non credo sentirei più calore se ne vedessi all’improvviso sorgere due… A Fatima un miracolo unico siglò con la firma del Cielo le apparizioni davanti a milioni di persone e l’evento fu visibile fino ad 80km di distanza. Non fu dunque un fenomeno di suggestione di massa. Eppure, nonostante la stampa dell’epoca sia religiosa sia atea, documenti l’evento, non ha portato ad una conversione di masse. Potremo dire lo stesso per tanti altri miracoli, come la Resurrezione di Lazzaro, o addirittura, con le debite differenze sostanziali, quella di Cristo! Il segno è tale se è accolto dal cuore… altrimenti resta sterile.

Non dobbiamo cercare segni o pretenderne rischiando di tentare Dio! Se arrivano vanno sicuramente interpretati. Se fossero segni dal diavolo, come prove, vessazioni o fatti sovrannaturali per incutere timore, il mio primo consiglio è di non darci peso e continuare solo a pregare e a vivere per la gloria di Dio puntando alla santità. Il diavolo prende sempre più importanza più noi gliene diamo. Se invece arrivano da Dio, allora vanno sottoposti a chi ci segue spiritualmente e può consigliarci in merito.
Se arrivano può essere perché la nostra fede ne ha bisogno e si sta spegnendo, oppure perché avremo prove grandi e da essi possiamo avere forza, oppure per una specifica vocazione o discernimento in corso. I segni sono sempre per dare forza e soprattutto per suscitare e fortificare la fede e la speranza, che si devono tradurre in carità di vita. Pensate a san Paolo che vive l’esperienza di essere travolto dalla Luce che lo acceca e che sente Gesù: «Chi sei, o Signore?». E la voce: «Io sono Gesù, che tu perseguiti!» (At9,5). Lo stesso Paolo poi sarà realmente chiamato ad essere crocifisso, non solo morendo per Cristo, ma con le stigmate spirituali come ci narra nella lettera ai Galati, soffrendo molto per il Vangelo che è chiamato a predicare. A Paolo infatti l’evento dell’incontro con Cristo Risorto culmina con la preghiera di Anania su di lui, quando le squame gli cadono dagli occhi e Gesù “gli mostrò quanto avrebbe dovuto soffrire per il Suo nome” (At9,16).

martedì 15 febbraio 2011

La lotta spirituale

Gesù ha detto: «Lottate per entrare attraverso la porta stretta» (Lc 13,24), ed egli stesso ce ne ha dato l’esempio quando nell’orto degli Ulivi ha affrontato nella preghiera la lotta, l’agonía decisiva (Lc 22,44). Posto di fronte all’alternativa tra restare fedele al Padre, anche al prezzo di subire una morte ignominiosa, oppure percorrere le vie suggerite dal demonio, egli è rimasto pienamente obbediente alla volontà di Dio, fino ad accogliere l’arresto senza mutare lo stile di mitezza e di amore che aveva contrassegnato l’intera sua vita. Lo stesso ha fatto sulla croce, dove, simmetricamente alle tentazioni da lui subite nel deserto, ha sentito riecheggiare da parte degli uomini parole simili a quelle di Satana:

«Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto».
«Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso».
«Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!» (Lc 23.35.37.39).

Gesù però non ha voluto salvare se stesso; al contrario, ha scelto di compiere fedelmente la volontà di Dio, continuando a comportarsi fino alla morte in obbedienza a lui, ossia amando e servendo Dio e gli uomini: ciò è stato causa di morte per Gesù, ma causa di vita per gli uomini tutti! Ed è proprio in risposta a quella vita in cui egli ha lottato per resistere alle seduzioni di Satana e per rimanere sempre capace di amore, che il Padre lo ha richiamato dai morti.

Tutto questo ha per noi una conseguenza determinante: solo Gesù Cristo, che vive in ciascuno di noi, può vincere il male che ci abita, e la lotta spirituale è esattamente lo spazio nel quale la vita di Cristo trionfa sulla potenza del male, del peccato e della morte. Ogni nostra vittoria è nient’altro che un riflesso della vittoria pasquale di Cristo, lui che sa com-patire le nostre debolezze, essendo stato tentato in ogni cosa, come noi, ma senza commettere peccato (cf. Eb 4,15), e ora «è sempre vivente per intercedere a nostro favore» (Eb 7,25).

È dunque Cristo che possiamo invocare con le parole del salmista: «Nella mia lotta sii tu a lottare!» (Sal 43,1; 119,154); è con lui e in lui che ogni giorno, pur nella fatica della lotta, possiamo rendere grazie a Dio cantando: «Benedetto il Signore, mia roccia! Egli addestra le mie mani alla battaglia, le mie dita all’arte della lotta» (Sal 144,1).

sabato 12 febbraio 2011

Una nuvola giovane

Una nuvola giovane giovane (ma, è risaputo, la vita delle nuvole è breve e movimentata)
faceva la sua prima cavalcata nei cieli, con un branco di nuvoloni gonfi e bizzarri.
Quando passarono sul grande deserto del Sahara, le altre nuvole, più esperte, la incitarono:
"Corri, corri! Se ti fermi qui sei perduta".
La nuvola però era curiosa, come tutti i giovani, e si lasciò scivolare in fondo al branco delle
nuvole, così simile ad una mandria di bisonti sgroppanti.
"Cosa fai? Muoviti!", le ringhiò dietro il vento.
Ma la nuvoletta aveva visto le dune di sabbia dorata: uno spettacolo affascinante.
E planò leggera leggera. Le dune sembravano nuvole d'oro accarezzate dal vento.
Una di esse le sorrise. "Ciao", le disse. Era una duna molto graziosa,
appena formata dal vento, che le scompigliava la luccicante chioma.
"Ciao. Io mi chiamo Ola", si presentò la nuvola.
"Io, Una", replicò la duna.
"Com'è la tua vita lì giù?".
"Bè.... Sole e vento. Fa un po' caldo ma ci si arrangia. E la tua?".
"Sole e vento... grandi corse nel cielo".
"La mia vita è molto breve. Quando tornerà il gran vento, forse sparirò".
"Ti dispiace?".
"Un po'. Mi sembra di non servire a niente".
"Anch'io mi trasformerò preso in pioggia e cadrò. E' il mio destino".
La duna esitò un attimo e poi disse: "Lo sai che noi chiamiamo la pioggia Paradiso?".
"Non sapevo di essere così importante", rise la nuvola.
"Ho sentito raccontare da alcune vecchie dune quanto sia bella la pioggia.
Noi ci copriamo di cose meravigliose che si chiamano erba e fiori".
"Oh, è vero. Li ho visti".
"Probabilmente io non li vedrò mai", concluse mestamente la duna.
La nuvola rifletté un attimo, poi disse: "Potrei pioverti addosso io...".
"Ma morirai...".
"Tu però, fiorirai", disse la nuvola e si lasciò cadere, diventando pioggia iridescente.
Il giorno dopo la piccola duna era fiorita.

"Signore, fa' di me una lampada.
Brucerò me stesso, ma darò luce agli altri".

giovedì 10 febbraio 2011

Dalle sue piaghe siete stati guariti (1 Pt 2,24)

Padre, che ami la vita,
Ti imploriamo
nella salute e nella malattia.
Tu non vuoi il nostro male,
ne ci lasci soli nel dolore.

La Pasqua del tuo Figlio, Gesu Cristo,
ci ha salvato per sempre dalla morte.
Dalle Sue piaghe siamo veramente guariti!

Spirito del Risorto,
consolaci e rendici fratelli nella sofferenza. Fa' che le mani di chi cura
siano piene dell'amore
e della tenerezza di Maria,
Madre di misericordia.
Amen!

Trasformare il mondo

Dopo il peccato originale siamo stati allontanati dal paradiso terrestre e collocati in un mondo contrassegnato dal peccato e dalla caducità. E con il peccato sono entrate nella nostra vita la morte e la sofferenza.
Nel nostro cuore sono tuttavia rimasti il ricordo e la nostalgia di quella pienezza di amore, pace, gioia, armonia, che solo Dio ci può donare, mentre ora sperimentiamo in continuazione uno scarto tra la vita che vorremo vivere e quella concreta che siamo chiamati ogni giorno ad affrontare.

Viene ora da chiederci se nostro destino sia rimasto solo il doverci adattare alle circostanze sperando di sopravvivere alla meglio, oppure se ci è dato anche un margine per modificare alcune realtà e renderle migliori.

La risposta ce l’ha data Gesù che è venuto a portare la luce per allontanare da noi le tenebre e che, in virtù della Sua costante presenza al nostro fianco e della Sua Parola, ha dato anche a noi il potere di cambiare il mondo ed i nostri destini.

Per ottenere ciò è tuttavia necessario che si faccia la nostra parte, perché ci viene chiesto di avere fede e di trasferire questa nel nostro vissuto attraverso le opere.

Questo punto è molto importante perché fino a quando ci si limita ad ascoltare la Parola, a discuterne o a raccontarla, anche a studiarla, si attiva soltanto un processo dell’intelletto e tutto finisce lì.
E’ come un seme collocato in un vaso che si può osservare in tutte le maniere, ma fino a quando questo non viene seminato nel terreno fertile non produce frutto.

E’ poi cosa nota che quando i frutti non si vedono anche le verità più grandi diventano poco credibili.

Viviamo un’epoca caratterizzata da uno straordinario sviluppo delle tecniche e dei mezzi di comunicazione, ma nello stesso tempo persiste e si allarga una grossa frattura fra il sapere illuminato e l’azione, e ciò avviene in tutti i campi, non solo in quello religioso, ma anche politico, sociale, ecologico, umano e quant’altro. E i frutti di bene poco si vedono. Anzi, alle volte si ha l’impressione che tutto si muova nel verso sbagliato, e che non ci sia solo l’esondazione di fiumi o lo smottamento di alcuni tratti di montagne, ma esondazioni e smottamenti nelle nostre coscienze e del nostro agire nel mondo.

Non dobbiamo tuttavia restare irretiti da queste realtà, ma sollevare lo sguardo più in alto verso chi ha saputo fare sul serio, ed in questa direzione ci è dato di vedere cose veramente straordinarie. Per restare in ambito religioso e soffermandoci alla nostra epoca basta pensare alle opere che hanno fatto il papa Giovanni Paolo II, S. Padre Pio da Pietralcina, Madre Teresa di Calcutta, Chiara Lubich, ecc.
E ce ne sono tanti altri anche viventi.

Rimane dunque la domanda: perché solo loro? Non ha detto il Signore che se crederemo anche noi faremo opere grandi? Certamente non tutti siamo chiamati a fare le opere di questi giganti della fede, ma Dio ci chiama tutti all’azione, e con Lui e con la guida della Sua parola siamo certi che possiamo veramente trasformare il mondo. Non rimane che rimboccarsi le maniche.

mercoledì 9 febbraio 2011

Le due ali

Carità e verità non sono nemiche; come non lo sono scienza e fede, pensiero umano e pensiero divino; estrema elaborazione critica ed estrema semplicità mistica. Così scriveva, nella sua Lettera agli Assistenti della Federazione Universitari Cattolici Italiani, il trentunenne Giovanni Battista Montini. Era il 1928 e colui che sarebbe divenuto Paolo VI già intuiva la necessità di un dialogo tra scienza e fede, tra filosofia e mistica, tra verità e amore. Alle spalle c'era una lunga stagione - che sarebbe continuata negli anni successivi - di duelli tra fede e ragione con una teologia arroccata in autodifesa apologetica e una scienza che bersagliava di frecciate quella che considerava ormai una roccaforte in disarmo. Montini andava già oltre la "teoria dei due livelli", ossia il rispetto e la non conflittualità tra i due ordini, quelli della ragione scientifica e della ragione teologica. Egli proponeva una sorta di duetto: come accade in musica ove persino due voci agli estremi del registro vocale, come il soprano e il basso, possono coesistere, incontrarsi, dialogare creando armonia, così deve avvenire nel contrappunto tra critica e contemplazione, tra ragione e morale, tra cultura e spiritualità. Come il soprano non deve cercare di abbassare il suo timbro né il basso ricorrere al falsetto, in un accordo che risulterebbe ridicolo, così anche il teologo e lo scienziato devono stare ciascuno coi piedi piantati nel loro territorio, ma devono anche guardare e ascoltare ciò che nell'altro campo si presenta e si afferma. Il pensiero corre, allora, all'immagine evocata da un altro Papa, Giovanni Paolo II, quando nella sua enciclica emblematicamente intitolata Fides et ratio, rappresentava la fede e la ragione come le due ali per spiccare il grande volo nel cielo della verità.

martedì 8 febbraio 2011

Vi resterà il profumo dei miei tigli

«Ho deciso di piantare un viale di tigli, perché sono anziano. Alla mia età, credo sia necessario fare atti di fiducia nel futuro su questa terra. Sono sotto il mio eremo: non so per quanti anni potrò sentire il profumo strabiliante che emanano in maggio, soprattutto la mattina presto e nelle lunghe serate piene di luce. Quel profumo che sale dalla terra della collina, sarà soprattutto per gli altri che verranno dopo di me. Quando siamo colti dall'anzianità, è importante pensare non soltanto a noi e ravvivare invece il nostro rapporto con quel che ci circonda, esprimere rispetto per la vita che abbiamo vissuto e gratitudine per questa terra così bella. Anche se dovremo lasciarla»
tratto da "Ogni cosa alla sua stagione" di Enzo Bianchi

Passare dall’io a Dio

La nostra debolezza, la nostra povertà, i nostri fallimenti e le nostre cadute non sono l’ostacolo alla potenza di Dio se restiamo a Lui uniti. L’unico ostacolo alla sua opera in noi sono i nostri “no” a Lui, che non sono solo le scelte di peccato ed egoismo, dalle quali sempre traiamo frutti di morte e solitudine, ma anche e soprattutto ciò che sta a monte di queste: il voler essere noi da soli conduttori della nostra vita. Da qui ne scaturisce un atteggiamento di più o meno apparente superbia che ci porta a trascurare la vigilanza, la preghiera del cuore e a sentirci schiacciati dal peso della vita, delle responsabilità, delle difficoltà, delle fatiche… perché vogliamo fare tutto da soli. Pertanto raccogliamo ciò che seminiamo: la solitudine e un profondo non senso del vivere.
Non voglio offrirvi delle parole su questo tema… piuttosto meditiamo “La Parola”, soffermandoci sul testo di Giovanni al capitolo 15.

Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri (Gv 15,1-17).

Questo testo va letto e riletto… L’insistenza dell’esoratazione a “rimanere” uniti (menein in greco) ci riporta al capitolo 6 del vangelo di Giovanni in cui si descrive il realismo eucaristico affermando che “chi mangia la carne e beve il sangue” di Cristo, “vero cibo e vera bevanda”, questi “rimane” unito a Lui. Questo unitamente all’accogliere “le sue parole”, ovvero “La Parola”, permette a noi di accogliere Dio nei nostri cuori dandogli una stabile dimora. L’Eucarestia e la Parola di Dio dunque sono il primo passo per un cammino di rigenerazione del nostro “io” profondo. Altro passo concreto e immediato di cambiamento della qualità del nostro vivere è il mettere in pratica “la regola d’oro”: amare il prossimo come noi stessi, amarci reciprocamente, amarci come Lui ci ha amati, pronti a dare la vita gli uni per gli altri. Solo nell’amore riusciamo davvero a colorare ogni nostro momento della giornata, dal gesto più semplice alle grandi imprese, trovando il vero senso del vivere. Solo nell’Amore troviamo la piena realizzazione del nostro essere, perchè siamo stati creati per amare ed essere amati. Ma il problema è proprio il punto di osservazione: non può essere l’io, aspettando di essere amati. Il fine di ogni nostra azione deve essere Dio e nel prossimo abbiamo la concreta possibilità di vedere Gesù presente: in colui che ha bisogno di ascolto, di essere visitato, di essere accolto, di essere sfamato, di essere dissetato, di sentire la vicinanza e l’amore di Dio attraverso di noi.

Chiara Amirante nell’ultimo incontro di conoscenza di sè a Roma, che tanti di voi hanno seguito in StreamingTV, ha approfondito il tema del narcisismo. All’inizio ha sottolineato come un tempo il grande bivio per il mondo giovanile fosse tra “l’essere e l’avere”, mentre oggi prevale tra l’essere e l’apparire. Potremo commentare dicendo che “il lupo cambia il pelo ma non il vizio”! L’avere, il possedere, i beni, non sono male in sè. Nulla lo è di quanto è creato… nè del mondo materiale nè dei bisogni inscritti nell’uomo. Diventa un problema il disordinato uso dei beni e il disordinato modo di soddisfare i nostri bisogni, soprattutto se questa modalità diviene esclusiva, esistenziale. Il bisogno di possere per dimostrare di valere ha caratterizzato e caratterizza molti. Oggi sembra prevalere il bisogno di apparire. Se si va in televisione, se si è affermati, se si è riconoscibili, allora si è qualcuno. Il problema è sempre lo stesso: la superbia che apre il varco all’egoismo e all’egocentrismo! Cambia le forme e le sfumature sotto cui si cela, ma resta il grande impedimento ad essere pienamente felici.

Il primo e più profondo bisogno dell’uomo è quello di amare ed essere amati – ci ha ricordato Chiara – pertanto basta per esempio seguire uno dei suoi esercizi proposti per verificare come sia profondamente vero che cambiando il centro dell’universo fuori dal nostro “io” cambi anche il risultato di ciò che raccogliamo come frutto immediato: “Vuoi essere felice? Preoccupati di far felice chi hai accanto!” questo è il primo grande esercizio da mettere subito in pratica per vivere questo Vangelo che è la risposta al come cambiare da subito. Successivamente incamminiamoci tutti per spogliarci delle maschere che abbiamo indossato e soprattutto per ridare spazio a Dio nella nostra vita!

lunedì 7 febbraio 2011

La paura della Luce

Possiamo perdonare un bambino quando ha paura del buio. La vera tragedia della vita è quando un uomo ha paura della luce. È come un lampo di luce questa intuizione di Platone, il grande pensatore greco. Ed è proprio sulla luce che si gioca il contrasto che egli ci propone. Da un lato la tenebra, grembo oscuro che giustamente il bambino teme e che invece per molti adulti diventa il paesaggio in cui ci si rifugia. C'è, infatti, anche esteriormente, un mondo della notte che si anima appena è calato il sole sulle nostre città. Lo rappresentava già il libro di Giobbe quasi in presa diretta: «Quando non c'è luce si alza l'omicida per assassinare il misero e il povero; nella notte s'aggira il ladro. L'occhio dell'adultero attende il buio e pensa: Nessun occhio mi vedrà! E si cala sul viso una sciarpa. Nelle tenebre si forzano le case. Tutti costoro di giorno se ne stanno nascosti, non vogliono saperne della luce» (Gb 24, 14-16).
Ma c'è un'altra paura della luce che non è né sociologica né psicologica. Ed è il sottrarsi allo sfolgorare della verità perché essa ti costringerebbe a mutare mentalità e vita. Si preferisce chiudere gli occhi, un po' come confessava Kafka nei confronti di Cristo: «Lui è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi!».
Ma lasciamo la parola proprio a Gesù per siglare questa nostra riflessione: «La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce- Chi fa il male odia la luce e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,19-21).

venerdì 4 febbraio 2011

Matrimonio e formazione

Quando si leggono le statistiche sui matrimoni che si sciolgono c’è veramente da restare sconcertati. Come è possibile, ci si chiede, che persone che si sono amate al punto da decidere di unire i loro destini per tutta la vita, che forse hanno messo al mondo dei figli, decidano di fare un passo indietro dimenticando le promesse e speranze di un tempo, sostituendo all’amore passato solo freddezza se non rancore?

Quando queste cose succedono, certamente ci sono i motivi, ma rimane sempre l’interrogativo: perché arrivare a tanto? Non si potevano trovare altre soluzioni?

Più ci si ragiona, più prende corpo l’impressione che la coppia quando si trova ad affrontare delle difficoltà, del resto inevitabili, si scopre troppo spesso impreparata a superarle, e pertanto, come un fisico che manca di anticorpi, è destinata a soccombere.

In medicina si lavora molto sugli anticorpi, ma ci si impegna altrettanto nell’offrire risorse per la sopravvivenza alle famiglie? A chi è deputato questo compito? Quale la prevenzione e quale la terapia?

Certamente ci sono a disposizione specialisti con grande professionalità, ma ai più manca la cultura di consultare questi operatori professionali, specialmente nella prima fase di formazione preventiva al matrimonio. Quando poi ci sono i cocci anche la terapia diventa difficile.

Si ha l’impressione che molte coppie si uniscono con una certa superficialità, guardando più al presente che la futuro, più alle emozioni che alla ragione. Non si interrogano su come potrà essere la loro vita quando l’innamoramento fisiologicamente si attenuerà, e non prevedono quali risorse mettere in campo all’insorgere di possibili incomprensioni o insidie alle loro unioni.

Ci sono persone che perdono letteralmente ogni orientamento di fronte a semplici difficoltà relazionali con il partner. Quando poi appaiono all’orizzonte fatti più gravi come per esempio le sempre più frequenti temute o reali infedeltà, le cose tendono a precipitare, offuscando e stravolgendo facilmente principi o valori come quelli di matrimonio, di famiglia, e di genitorialità.
Come una pianta che non ha radici profonde viene divelta dal primo colpo di vento, così il sistema “coppia” salta perché non trova strumenti efficaci per venirne fuori e riconquistare vitalità e l’armonia perduta.

A questo punto sopravvengono delusione, scoraggiamento e senso di vuoto perché ci si rifiuta di accettare una realtà che si discosta dagli ideali sognati.

Unica soluzione che possa avere senso rimane il fare il fatidico passo indietro per scrollarsi di dosso tutta questa dolorosa situazione e riacquistare la “libertà”.

Mosse strategiche che implichino pazienza, mitezza e sopportazione, anche se solo per breve tempo, non sono molto apprezzate perché considerate “perdenti” nel nostro mondo secolarizzato. D’altra parte anche la distanza o tiepidezza rispetto ai valori cristiani hanno un loro peso.

Si perviene a tale soluzione, come detto, per la povertà di strumenti o risorse a disposizione per affrontare sia in fase preventiva la formazione della coppia, sia le difficoltà successive.

Così il matrimonio si “butta via” come cosa di scarso valore.

Ogni imprenditore che ha una azienda per quanto piccola fa i suoi bilanci di previsione individuando prima di tutto gli obbiettivi che vuole raggiungere. Poi guarda al mercato e si chiede quali potranno essere le condizioni che dovrà affrontare, sia favorevoli che sfavorevoli. Indi studia le strategie da mettere in campo per affrontare le difficoltà qualora si presentassero. Quando vede che l’obbiettivo è raggiungibile, solo allora parte con l’attività, fermo restando che ad intervalli regolari continuerà a tenere d’occhio il percorso fatto ed i risultati ottenuti, se si è mantenuto sulla linea delle previsioni o se si è discostato dalla stessa. In questo secondo caso interverrà per apportare i correttivi necessari alla gestione.

E’ emblematico osservare quante energie mettiamo nel fare sopravvivere le nostre aziende, specialmente nei periodi di crisi, e nello stesso tempo con quanta disinvoltura costituiamo e lasciamo poi fallire l’azienda della nostra vita.

mercoledì 2 febbraio 2011

La perla

Disse un’ostrica a una vicina: “Ho veramente un gran dolore dentro di me. E’ qualcosa di pesante e di tondo, e sono stremata”.
Rispose l’altra con borioso compiacimento: “Sia lode ai cieli e al mare, io non ho dolori dentro di me. Sto bene e sono sana sia dentro che fuori”.
Passava in quel momento un granchio e udì le due ostriche, e disse a quella che stava bene ed era sana dentro e fuori: “Si, tu stai bene e sei sana; ma il dolore che la tua vicina porta dentro di sé è una perla di straordinaria bellezza”.
E’ la grazia più grande, quella dell’ostrica.
Quando le entra dentro un granello di sabbia, una pietruzza che la ferisce, non si mette a piangere, non strepita, non si dispera.
Giorno dopo giorno trasforma il suo dolore in una perla: il capolavoro della natura.

martedì 1 febbraio 2011

Il pesce nella rete…

Parlavo con un amico tempo fa che mi ha detto: “Hai sentito che bell’intervento televisivo ha fatto quella persona?” riferendosi alle sue affermazioni da atea convinta con grandi competenze in ambito scientifico che sembravano voler spiegar tutto e negare l’esistenza del mondo spirituale e dell’al di là asserendo che ciò che oggi non è spiegabile in realtà prima o poi lo sarà, è solo questione di tempo.

Sono rimasto un attimo in silenzio. Ho semplicemente aggiunto: “Speriamo bene…”. Lì per lì il mio amico si è messo a ridere… Dopo essersi fatto serio guardandomi dritto negli occhi, con un senso di curiosità e preoccupazione si è fatto serio e mi ha chiesto perché dicessi così. Cosa volessi dire…
Allora ho precisato: “Dico, speriamo bene, perché se non avesse ragione è un bel guaio!”

In un attimo la mia mente ha oltre passato le nubi e il tempo. Ho immaginato la scena di quella persona un giorno davanti all’evidenza dell’esistenza di Dio. Lo stupore da cui sarebbe colta. Il rimpianto d’aver speso una vita in futilità. L’umiliazione estrema davanti alla coscienza personale che si trova sbugiardata dall’evidenza dinnanzi a Dio. I rischi e le conseguenze estreme possibili…

Mi è tornata alla memoria la famosa scommessa di Pascal, filosofo e scienziato, inventore della calcolatrice, per cui molto concreto e ligio alla corretta ratio, seppur ben coniugata con la fede. Nella sua opera “I Pensieri”, scrive un semplice ragionamento concludendo che conviene credere a Dio perché:
1) se Dio esiste, si ottiene la salvezza;
2) se ci sbagliamo, si è vissuto un’esistenza lieta e positiva, ispirata alla luce del Vangelo, piena di speranza rispetto alla consapevolezza di finire in polvere senza nessun altro futuro.

Le conseguenze potrebbero essere viste anche in negativo… Inoltre Pascal afferma la superiorità della fede in virtù del fatto che essa è in grado di portarci all’eternità, che è infinitamente superiore ai piaceri effimeri, materiali e finiti di cui è possibile godere sulla terra, e che dunque, concludendosi in dispiacere, non sono considerabili come veri piaceri.

Il ragionamento noto come “scommessa” è molto più complesso e potete approfondirlo leggendolo direttamente nella sua opera, vi lascio un link interessante da questo punto di vista. Io ne ho preso solo spunto.

E’ incredibile quanto la mente possa in un istante, in una frazione di secondo fare miliardi di operazioni e ragionamenti. Ebbene. Primadi quel sospiro e di quella mia frase, ripensai proprio a tutto questo.

Nel dire “Speriamo bene…”, precisando in seguito “Dico, speriamo bene, perché se non avesse ragione è un bel guaio!” intendevo semplicemente affermare che quando sento persone così convinte che dopo la morte non ci sia nulla spero quasi per loro che abbiano ragione, perché se così fosse al massimo per me, che credo nel Vangelo e nella resurrezione della carne, non può andar male, in fondo avrò comunque vissuto una vita pensando ad una meta e cercando di viverla al meglio secondo coscienza. Ma se per caso la ragione stesse proprio dalla parte della Chiesa, allora è un dramma infinito, direi “eterno”. Perché l’inferno è una realtà e se si verifica è terrificante! Ne facciamo esperienza anche qui sulla terra, quando diciamo “questa vita è un inferno!”, beh… pensate che una condizione tale diventi eterna e qualitativamente più drammatica… Soffro solo all’idea di chi ci è potuto finire e di chi potrebbe finirci, non escludendo me per primo se non corrispondo alla grazia di Dio e non confido nella Sua Smisurata Misericordia!

La posta in gioco nella nostra vita è questa davvero! Svegliamoci!

Nel mio interloquire ho aggiunto come esempio quello di un pesce che si trova nel mare e nuota inconsapevole di essere stato preso nella rete dei pescatori perchè questa è ampia e spaziosa. Finchè il pesce resta là in acqua guizza e non immagina minimamente a cosa stia andando incontro, al massimo se arriverà all’estremità della rete potrà sentire che il suo spazio d’azione è limitato, ma appena la rete si alza repentinamente si troverà a dimenarsi senza più via d’uscita! Il pesce che è già finito nella rete del pescatore, finché è ancora nell’acqua non sospetta di essere stato catturato, quando però la rete esce dal mare, si dibatte perché sente vicina la sua fine; ma ormai è troppo tardi.

Questa è la nostra situazione da peccatori… Finché siamo in questo mondo ce la spassiamo allegramente non sospettando nemmeno di essere nella rete diabolica. In molti rischiamo di accorgerci quando ormai non potremo più rimediarvi… appe­na entrati nell’eternità! E’ il dramma del vivere lo stato di morte dell’anima, l’assenza di Dio nel cuore, che si chiamano “inferi”. Spesso Chiara Amirante ci ripete che gli inferi sono uno stato dell’anima che, con la morte, si tramutano in inferno, per sempre e senza rimedio. Così come il vivere il bene già sulla terra è vivere un pezzetto di Cielo che con la morte può divenire purgatorio se c’è ancora da purificarsi o Paradiso direttamente.

Chiaro che la Chiesa afferma che chi davvero è stato impedito al dono della fede dalla storia o dalla vita può salvarsi seguendo la legge di coscienza, che è come percorrere una strada secondaria per raggiungere una città, ma resta il fatto che chi non si trova in questa condizione e ha scelto di esserci scartando sia la strada secondaria sia l’autostrada del Vangelo, la rete prima o poi si solleverà.

Anche a riguardo di Medugorje, che reputo un ultimo grido dal Cielo per riprendere la strada verso Dio, a quanti dicono che è tutto falso rispondo semplicemente: prima di parlare andate là e mettetevi in discussione, dopo decidete. Ma attenzione, come spesso Saverio Gaeta dice: se è falso si tratta di una delle burle più grandi della storia essendo più di tre milioni all’anno le persone da tutto il mondo ad andarvi e crederci, ma se fosse vero la situazione è grave perché si tratterebbe di non aver prestato ascolto niente di meno che alla Madre di Dio che da 30 anni viene sulla terra per parlarci e noi incuranti continuiamo turandoci gli orecchi e chiudendo gli occhi.

Voglio concludere alzando il livello. Le mie sono semplici considerazioni e condivisioni di un fratello in cammino come tutti voi… Meditate invece e gustatevi queste parole di una acutezza e profondità meravigliosa. Sono del Beato John Henry Newman (1801-1890), sacerdote, fondatore di una comunità religiosa, teologo.

Per entrare nel regno dei cieli, bisogna fare la volontà del Padre mio (PPS, vol. IV, n° 22)
Anno dopo anno, il tempo trascorre in silenzio ; la venuta di Cristo si fa sempre più vicina. Se soltanto potessimo avvicinarci a lui, come egli si avvicina alla terra ! O fratelli miei, pregatelo affinché vi dia il coraggio di cercarlo in tutta sincerità. Pregatelo perché vi renda ardenti… Pregatelo affinché vi dia ciò che la Scrittura chiama « un cuore buono e onesto », o « un cuore perfetto » (Lc 8, 15), e, senza aspettare, cominciate subito ad obbedirgli con il cuore disposto al meglio. L’obbedienza foss’anche minima vale più del non obbedire…
Dovete cercare il suo volto (Sal 27, 8) ; l’obbedienza è l’unico modo di cercarlo. Tutti i nostri doveri sono obbedienza… Fare ciò che egli domanda, questo è obbedirgli. E obbedirgli è avvicinarsi a lui. Ogni atto di obbedienza ci avvicina a lui che, malgrado le apparenze, non è lontano bensì vicinissimo dietro la realtà materiale nella quale viviamo; la terra e il cielo sono soltanto un velo fra lui e noi ; verrà il giorno in cui egli strapperà questo velo e si mostrerà a noi. E allora a seconda del modo in cui l’abbiamo aspettato, ci ricompenserà. Se l’abbiamo dimenticato, non ci riconoscerà ; invece, « beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli » (Lc 12, 37). Tale sia la sorte di ognuno di noi ! È difficile giungere a questo, ma non giungervi è affliggente. La vita è breve, la morte è certa, e il mondo che viene è eterno.

Lettera aperta da Caserta di suor Rita Giaretta

Da anni, insieme a tre mie consorelle (suore Orsoline del S. Cuore di Maria), sono impegnata in un territorio a dire di molti “senza speranza”. Un territorio, quello casertano, sempre più in ginocchio per il suo grave degrado ambientale, sociale e culturale, dove anche la piaga dello sfruttamento sessuale, perpetrato a danno di tante giovani donne migranti, è assai presente con i suoi segni di violenza e di vera schiavitù.
Come donna, come consacrata, provocata dal Vangelo di Gesù che parla di liberazione e di speranza, insieme alle mie consorelle, ho scelto di “farmi presenza amica” accanto a queste giovani donne straniere, spesso minorenni, per offrire loro il vino della speranza, il pane della vita e il profumo della dignità.
Oggi, osservando il volto di Susan chinarsi e illuminarsi in quello del suo piccolo Francis, scelto e accolto con amore, ripensando alla sua storia – una tra le tante storie accolte, la quale ancora bambina (16 anni) si è trovata sulle nostre strade come merce da comprare, da violare e da usare da parte di tanti uomini italiani – sono stata assalita da un sentimento di profonda vergogna, ma anche di rabbia.
Ho sentito il bisogno, come donna, come consacrata e come cittadina italiana, di chiedere perdono a Susan per l’indecoroso spettacolo a cui tutti, in questi giorni, stiamo assistendo. E non solo a Susan, ma anche alle tante donne che hanno trovato aiuto e liberazione e alle tante, troppe donne, ancora schiave sulle nostre strade. Ma anche ai numerosi volontari e ai tanti giovani che insieme a noi religiose credono nel valore della persona, in particolare della donna, riconosciuta e rispettata nella sua dignità e libertà.
Sono sconcertata nell’assistere come da “ville” del potere alcuni rappresentanti del governo, eletti per cercare e fare unicamente il bene per il nostro Paese, soprattutto in un momento di così grave crisi, offendano, umilino e deturpino l’immagine della donna. Inquieta vedere esercitare un potere in maniera così sfacciata e arrogante che riduce la donna a merce e dove fiumi di denaro e di promesse intrecciano corpi trasformati in oggetti di godimento.
Di fronte a tale e tanto spettacolo l’indignazione è grande!
Come non andare con la mente all’immagine di un altro “palazzo” del potere, dove circa duemila anni fa al potente di turno, incarnato nel re Erode, il Battista gridò con tutta la sua voce: «Non ti è lecito, non ti è lecito!».

tratto dalla lettera di Sr. Rita e sorelle comunità Rut