domenica 27 novembre 2011

Noi siamo la nostra attesa

Noi siamo la nostra attesa. E’ questo che dobbiamo ricordarci alle porte dell’avvento. Il vero giudizio sulla nostra vita non lo danno i nostri successi o fallimenti, ma le nostre attese. Perchè sono esse a dare linfa alle nostre giornate. Chi non ha attesa non ha voglia neppure di vivere. Ma è vero anche che non tutte le attese sono per noi. Ci sono attese troppo piccole, troppo mediocri per reggere la sete di felicità che ci portiamo nel cuore. E’ come quando qualcuno ha molta sete e si accontenta di passarsi un fazzoletto bagnato sulle labbra. Certe seti hanno bisogno di cisterne d’acqua; hanno bisogno di fiumi interi per poter avere qualche effetto. Ecco perchè ciascuna delle nostre vite dovrebbe avere in fondo una grande attesa. L’avvento serve a questo, a ricordarci quanto siamo assetati e quanto Dio ha preso sul serio la nostra sete di senso. E non è altrove la risposta a questa sete. Non è nell’aldilà. Non è domani. Questa risposta è qui ed ora. E’ ad un palmo dal nostro naso. E’ nella fragilità di un bambino povero, nato esule, figlio di povera gente, riconosciuto da altri poveri e trovato dagli intelligenti venuti dall’oriente, ma tenuto lontano ai potenti, ai superbi e ai violenti. Erode non lo vedrà mai pur regnando su di lui. Questo bambino non ha mai smesso di stare nella storia, anche nella nostra. Fino alla fine del mondo Dio rimarrà compromesso con ogni angolo oscuro di spazio e di tempo. I cieli hanno nuova dimora. I cieli sono qui. Non servono grandi ragionamenti. Non serve denaro. Non serve strategia o pubblicità. Serve solo di avere gli occhi aperti. Serve quella semplicità di cuore che sà accorgersi delle cose. Serve l’attesa, perchè solo per chi attende arriva qualcosa. E per noi è più vero ancora perchè solo per chi attende arriva Qualcuno. Così la nostra preghiera si fà cortissima, come un respiro che sussurra continuamente Maranatha, Vieni Signore Gesù.

giovedì 24 novembre 2011

Festa al castello

Il villaggio ai piedi del castello fu svegliato dalla voce dell'araldo del castellano che leggeva un proclama nella piazza.
"Il nostro signore beneamato invita tutti i suoi buoni e fedeli sudditi a partecipare alla festa del suo compleanno. Ognuno riceverà una piacevole sorpresa. Domanda a tutti però un piccolo favore: chi partecipa alla festa abbia la gentilezza di portare un po' d'acqua per riempire la riserva del castello che è vuota...".
L'araldo ripeté più volte il proclama, poi fece dietrofront e scortato dalle guardie ritornò al castello.
Nel villaggio scoppiarono i commenti più diversi.
"Bah! E' il solito tiranno! Ha abbastanza servitori per farsi riempire il serbatoio... Io porterò un bicchiere d'acqua, e sarà abbastanza!".
"Ma no! E' sempre stato buono e generoso! Io ne porterò un barile!".
"Io un... ditale!".
"Io una botte!".
Il mattino della festa, si vide uno strano corteo salire al castello. Alcuni spingevano con tutte le loro forze dei grossi barili o ansimavano portando grossi secchi colmi d'acqua. Altri, sbeffeggiando i compagni di strada, portavano piccole caraffe o un bicchierino su un vassoio.
La processione entrò nel cortile del castello. Ognuno vuotava il proprio recipiente nella grande vasca, verso la sala del banchetto.
Arrosti e vino, danze e canti si succedettero, finché verso sera il signore del castello ringraziò tutti con parole gentili e si ritirò nei suoi appartamenti.
"E la sorpresa promessa?", brontolarono alcuni con disappunto e delusione. Altri dimostravano una gioia soddisfatta: "Il nostro signore ci ha regalato la più magnifica delle feste!".
Ciascuno, prima di ripartire, passò a riprendersi il recipiente. Esplosero allora delle grida che si intensificarono rapidamente. Esclamazioni di gioia e rabbia.
I recipienti erano stati riempiti fino all'orlo di monete d'oro!
"Ah! Se avessi portato più acqua...".

"Date agli altri e Dio darà a voi: riceverete da lui una misura buona, pigiata, scossa e traboccante. Dio infatti tratterà voi allo stesso modo con il quale voi avrete trattato gli altri" (Luca 6,38)

lunedì 21 novembre 2011

Se Dio educa con il suo silenzio


Mi avevano chiesto di predicare dei ritiri in Bangladesh e durante uno di questi ho chiesto di incontrare delle mamme e dei papà che hanno un bambino con un handicap. Ho parlato dell'importanza della persona con un handicap, del suo posto nella società e nella chiesa. Al termine, una persona si è alzata e ha detto: «Ho un figlio che si chiama Vincenzo; a sei mesi ha avuto una febbre molto forte che ha provocato delle convulsioni che sono durate a lungo. Ora ha un handicap molto profondo, non parla, non cammina, ha 16 anni e la sola comunicazione avviene attraverso il tatto». Qualche giorno dopo sono andato a conoscere Vincenzo e in effetti era un ragazzone con un handicap molto profondo. Il papà mi ha detto: «Io ho molto sofferto, ho dovuto spendere molti soldi per i medicinali anti-epilettici e a volte non ne avevo abbastanza per la mia famiglia. Mia moglie ed io abbiamo molto sofferto. Abbiamo pregato molto perche Dio guarisse nostro figlio. Dio ha esaudito la nostra preghiera. Ma non nel modo che ci aspettavamo. Infatti mio figlio non è guarito, ma Dio ci ha trasformati: mia moglie ed io ora abbiamo una grande pace e molta gioia ad avere un figlio così». Domenico mi ha fatto capire che cos'è la risurrezione e come Gesù agisce nel nostro mondo. Noi vogliamo che Dio fissi tutte le cose e che sopprima ogni sofferenza, ma si scopre che quello che Dio fa non è questo. Dio da una nuova forza per portare la sofferenza, e la risurrezione è una risurrezione di compassione. Dobbiamo scoprire che cos'è la risurrezione.
Jean Vanier

martedì 15 novembre 2011

Il tesoro svelato

Dio disse: Io ero un tesoro che nessuno conosceva. Allora volli essere conosciuto. Per questo creai l'uomo. «Voglio avvicinarmi per osservare questo spettacolo straordinario: perché questo roveto brucia» senza consumarsi? (Esodo 3,3). Ed ecco, una voce si leva da quel fiammeggiare: “Io sono colui che sono!”» (3,14). Per secoli gli esegeti si sono accaniti su questa strana carta d'identità di Dio. Ogni decifrazione aveva forse un'anima di verità, ma alla fine rimaneva un cono d'ombra, un nucleo oscuro e segreto. È appunto il mistero divino, la sua “solitudine” che, certo, sboccia al suo interno nel dialogo trinitario, ma rimane nell'infinito della trascendenza, invalicabile a un piede estraneo, incomprensibile a orecchio esterno. Ma subito dopo quell'autodefinizione inaccessibile, ecco un'altra frase sorprendente: Mosè, di' agli Israeliti: «Io-Sono mi ha mandato a voi». Il Dio misterioso esce da sé stesso, parla, invia e libera. Questa storia di un'identità assoluta e perfetta che si apre e si comunica ha la sua genesi nella creazione, quando Dio, desiderando essere conosciuto, crea l'uomo, un interlocutore «di poco inferiore a lui» in grandezza e libertà (Salmo 8,6) e a lui si svela e rivela. Sono le parole di un famoso poeta austriaco, Hugo von Hofmannsthal (1874–1929), a evocare quell'istante iniziale supremo. Sono righe che appartengono al Libro degli amici di questo autore, amico del musicista Richard Strauss: è proprio in quell'atto divino primordiale che egli vede la genesi delle nostre amicizie genuine e del nostro amore. Anche noi apriamo il nostro segreto interiore per offrire i nostri tesori a chi amiamo. Per questo, l'amore autentico è la più alta prova dell'esistenza del vero Dio.

domenica 13 novembre 2011

Tra sonni e veglie


Il mondo vuole il sonno, il mondo non è che sonno. Ma l’amore vuole la veglia. L’amore è la veglia ogni volta reinventata, ogni volta una prima volta. (Christian Bobin)
Tormentato dal vangelo  in cui le vergini sagge e quelle stolte si addormentano nell’attesa, pensavo la stessa cosa che Bobin scrive con tanta chiarezza. Il mondo esige che noi dormiamo, da svegli saremmo eccessivamente felici, potremmo persino cambiarlo questo mondo. Perchè essere svegli significa amare e lasciarsi amare, e quando ciò accade si hanno energie per rifare l’universo da capo. ma rimanere svegli è anche faticoso, troppe cose ci spingono a chiudere gli occhi, troppe cose intorpidiscono le nostre speranze. Troppe. In fin dei conti Gesù non ci domanda di fare miracoli, ma di tenere gli occhi aperti.

martedì 8 novembre 2011

Cercare e trovare

"Colui che cerca non deve fermarsi fino a quando non avrà trovato; quando avrà trovato, resterà stupito; quando si sarà stupito, regnerà; quando avrà iniziato a regnare, troverà riposo". Ecco cinque tappe di un itinerario dello spirito tracciato da un testo apocrifo cristiano, il Vangelo degli Ebrei, databile attorno al II-III secolo (questo frammento è giunto a noi attraverso la citazione di un autore cristiano del II secolo, Clemente Alessandrino). Seguiamo, dunque, quella strada che ha come punto di partenza il “cercare”. È la donna del Cantico dei cantici che corre nella notte alla ricerca del suo amato ad essere il simbolo di questa ansia di luce. E alla fine, dopo i fallimenti, ecco la seconda tappa: «Trovai l'amore dell'anima mia» (3,1-4). L'incontro, però, non è l'approdo terminale perché esso apre una nuova avventura, quella dello “stupore”, ossia del dialogo contemplativo tra i due che si amano, tra l'anima e il suo Signore. Si spalanca, così, un orizzonte glorioso e luminoso, l'esperienza del “regnare” con Dio, come aveva promesso Cristo ai suoi discepoli («siederete su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele»: Matteo 19,28). È a questo punto che l'itinerario raggiunge la sua meta: è quel “riposo” che non significa una pallida e inerte quiete, ma nel linguaggio biblico è la pienezza di vita e di pace, è la requies aeterna cristiana, celebrata nei capitoli 3 e 4 della Lettera agli Ebrei. Come diceva il Siracide, «segui le sue orme, ricerca [la sapienza di Dio] e ti si manifesterà… Alla fine in essa troverai un riposo che diverrà la tua gioia» (6,27-28). Nel lager nazista Dietrich Bonhoeffer invocava: «Riposo di Dio, tu vieni incontro ai tuoi fedeli come una sera di festa immensa!».