martedì 31 maggio 2011

Un Cenacolo di dubbi

Uno dei vangeli pasquali che mi ha sempre affascinato è un passaggio che si trova al capitolo 24 di Luca; i due discepoli di Emmaus sono appena rientrati a Gerusalemme. Il cuore in gola per la corsa fatta, gli occhi pieni di luce, l’entusiasmo a mille, il miracolo dell’incontro con il Risorto ancora stampato nella mente come un ricordo quasi palpabile… spalancano le porte del Cenacolo e subito dopo qualcuno degli Undici corre a richiudere a doppia mandata il portone d’ingresso. La paura regna ancora sovrana: il rischio di fare la stessa fine di Gesù è ancora altissimo. Le domande viaggiano a ritmo iperbolico e le risposte scarseggiano. Certo, quel Gesù li aveva abituati a tante stranezze; non era certo un conservatore, un consolidatore delle tradizioni dei padri, però, se veramente era risorto, perché affidarne la testimonianza alle donne, il cui valore in sede legale era equivalente a zero? E ora, anche questi due, Cleopa e il suo amico, perché apparire a costoro, che erano i più delusi e arrabbiati tra tutti, tanto che avevano abbandonato Gerusalemme e la prima Comunità cristiana con la promessa di mai più rimetterci piede? Perché Gesù non segue le logiche umane? Perché ci complica e si complica la vita? Se apparisse risorto a Caifa, non sarebbe tutto più semplice?

Ed ecco che in mezzo al turbinio di domande, di proteste, di prove generali per essere veramente discepoli, appare Lui. Davanti alla selva di discorsi e considerazioni, una semplice parola: “Pace!”

Finitela con le parole! Lasciate le opere al secondo tempo di questo film che è la vita da risorti: il primo tempo è tutto dedicato alla contemplazione e alla comunione con me, il Risorto!!!

Sia pace nelle vostre menti, nei vostri cuori, non lasciatevi sviare!

La frase più sconvolgente di Gesù arriva però in seconda battuta: “Perché sorgono dubbi nel vostro cuore?”

Ma i dubbi non trovano forse domicilio nella mente? Come può il cuore dettare legge alla mente? Figuriamoci se oggi Gesù apparisse nelle stesse condizioni in cui apparve nel Cenacolo il mattino di Pasqua! Prima del prete, verrebbe chiamato il RIS, oppure sicuramente qualche scienziato di fama internazionale per cercare di sfatare il presunto raggiro!

Eppure, a ben pensarci, quante sono le occasioni della nostra vita in cui ci siamo trovati incastrati in una bolgia di pensieri che ha tolto il fiato al cuore? È stata purtroppo esperienza di tutti chiudere amicizie, storie d’amore, esperienze professionali perché schiacciati da dubbi, sensi di colpa, sentimenti di abbandono o tradimento, pensieri di gelosia, ipotesi fantascientifiche di persecuzioni e simili… esperienze fatte a volte in prima persona, altre come parte lesa, a volte a ragione, altre a torto.

Gesù invita a fare un salto di qualità, ricordando che il cuore intuisce ben prima della mente. La ragione calcola, progetta, considera, ma non è in grado di buttarsi. Anzi, se la si lascia correre, rischia di tagliare le gambe. Dostoevskij parlava di uno stretto legame esistente tra l’annebbiamento dell’intelligenza e l’indurimento del cuore. Alcune cose non possono essere spiegate. Tuttavia, l’assenza di spiegazioni legate all’intelligenza non precludono l’utilizzo della spontaneità del cuore. Quando la mente viaggia, arriva a togliere sangue al cuore.

Fortunatamente il buon Dio non ci ha creati con solo il cuore o solo la mente, ma con entrambi, aiutandoci cosi a cogliere che se si lascia campo libero alle emozioni e ai sentimenti si rischiano le cantonate, evitabili grazie al raziocinio. Viceversa, se sono i pensieri a dettare legge, senza le intuizioni del cuore si rischia di impantanarsi in quelle situazioni in cui non tutto può essere spiegato. Mi chiedo allora quale sia il campo di gioco per viversi quest’avventura.

Credo che possa essere solo l’esperienza quotidiana: non le aule di teologia, non i convegni, nemmeno le prediche o le meditazioni più illuminate. Toccate, mettete la mano, fate esperienza! Senza un’esperienza globale ed equilibrata di Gesù, tutta la nostra realtà di uomini e di cristiani ne esce parzializzata: o troppo sentimentalismo, o troppo freddo razionalismo. Cuore e mente non possono essere separati.

Allora, riprendendo Dostoevskij, mi viene da chiedermi quanta nebbia ci sia nella mia testa, frutto del polverone alzato da troppi pensieri. Ugualmente, mi viene da pormi un’altra grande questione: quanta durezza c’è nel mio cuore? Sono capace ancora di emozionarmi? Di vivere la commozione davanti a Gesù? L’entusiasmo? Perché se è vero che i troppi pensieri bloccano la sana istintività del cuore, è vero anche il contrario, come l’esperienza del Faraone in Egitto ha dimostrato: un cuore impietrito brucia l’evidenza, allontanando la percezione reale da parte della mente.

Gesù non ha bisogno di cristiani a pezzettini, o tutta mente o tutto cuore, ma di uomini e donne globali, interi, integri. A noi un bell’esame di coscienza.

Dacci il coraggio, Gesù, di vedere la verità di quello che siamo e il coraggio di farti entrare in quelle parti di noi oggi lontane dalla tua Risurrezione.

lunedì 30 maggio 2011

Sull'Amore

“Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all’eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa dal Divino?” (n.3) Questa prima annotazione effettivamente mette luce sul rischio di un’insistenza forse esagerata sulla sessualità e su una diffusa predicazione erronea. La Santa Madre Chiesa però non ha mai affermato che la sessualità sia negativa in sé, anzi in Gaudium et Spes 48 arriva ad affermare che gli sposi glorificano Dio e pregano nel momento in cui “pongono gli atti propri”. La sessualità è il linguaggio proprio con il quale un uomo e una donna possono dire di amarsi reciprocamente qualora le parole non arrivino più. Ma proprio qui sta l’importante rivalutazione della sessualità e dell’amore in sè! Si tratta di un linguaggio e come tale ha delle regole, una grammatica, la possibilità di essere usato male. Come ogni lingua necessita di tempo di apprendimento, di studio, di esercizio per arrivare ad essere padroneggiata, così il linguaggio dell’amore che è in assoluto il più universale e comprensibile, ma anche il più complesso e delicato. Non si può scegliere lo stile poetico per scrivere un manuale di storia, né tantomeno pretendere che un bambino di tre anni parli correttamente la propria lingua al livello di un laureato.

L’agape, con la novità di avere Gesù e il suo comportamento come modello, non esclude o condanna l’eros e la philia, ma le rivaluta e le ingloba in cerchi concentrici che si completano tra loro. Si tratta di diversi colori di uno stesso arcobaleno, di cui l’agape ne costituisce la parte essenziale. “L’eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, estasi verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo. Cos’ diventa evidente che l’eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all’uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell’essenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende” (n.4).

L’amore ha una connessione diretta con Dio e promette orizzonti nuovi di realizzazione, felicità, eternità, ma la via dell’istinto o del “tutto e subito”, come molte altre strade affini, non possono condurre a tale finalità. “Questo non è rifiuto dell’eros o suo avvelenamento” (n.5), ma una ricerca di maturità per vivere pienamente l’agape anche attraverso la via dell’eros che necessita di “purificazioni, maturazioni, guarigioni”, “ciò dipende innanzitutto dalla costituzione dell’essere umano, che è composto di corpo e di anima. L’uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità”. Troppo spesso si pensa di poter separare il corpo dall’anima, quasi sicuri di “non coinvolgersi”. Al di là del non poter sapere almeno se l’altro/a, in qualità di partner, possa “coinvolgersi” o meno, tale ragionamento resta difettoso caratterizzato da un modello di persona a compartimenti stagni. L’uomo e la donna sono persone nella sua unicità e unitarietà, dove non è possibile stabilire limiti definiti tra corpo, anima e mente… Così come un corpo mal nutrito inciderà sulla mente e sulla vita stessa della persona nella sua globalità, altrettanto accadrà per un’anima non alimentata e fortificata nell’amore. Inoltre l’eros non riguarda solo il corpo, così come la philia potrebbe riguardare solo le relazioni di amicizia a livello di dialogo e l’agape una certa spiritualizzazione dell’amore, ma eros-philia-agape, a diversi livelli, coinvolgono e coinvolgeranno sempre le persone nella loro totalità.

“Non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l’uomo, la persona, che ama come creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima”; “l’eros degradato a puro sesso diventa merce, una semplice cosa che si può comprare e vendere, l’uomo stesso diventa merce”; la fede cristiana, al contrario, ha considerato sempre l’uomo come una essere uni-duale, nel quale spirito e materia si compenetrano a vicenda sperimentando proprio così due ambedue una nuova nobilità. S’, l’eros vuole sollevarci in estasi verso il Divino, condurci al di là di noi stessi, ma proprio per questo richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazione e di guarigioni”.

In definitiva “l’amore comprende la totalità dell’esistenza in ogni sua dimensione [...] e mira all’eternità” (n.6), raggiungibile attraverso un “esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la liberazione nel dono di sé”.

Eros, philia e agape hanno sicuramente diverse dimensioni, ma “non si lasciano mai separare completamente” (n.7), arrivando addirittura alla conclusione che c’è una dimensione di eros anche nell’amore divino per l’uomo, proprio di un “Dio che ama personalmente” (n.9).
Benedetto XVI
enciclica Deus Caritas est

mercoledì 25 maggio 2011

Continua a suonare!

Volendo incoraggiare il proprio bambino a fare progressi nel suonare il pianoforte, una madre portò il proprio piccolo ad un concerto di Paderewski.
Dopo essersi seduta, la madre vide un’amica nella platea e andò a salutarla.
Il piccolo, stanco di aspettare, si alzò, attraversò la sala ed arrivò davanti ad una porta su cui c’era scritto: “Vietato entrare”.
Quando le luci si attenuarono e il concerto stava per iniziare, la madre ritornò al suo posto e vide che suo figlio non era più là.
All’improvviso il sipario si aprì e le luci furono puntate sul grande pianoforte al centro del palcoscenico.
Sgomenta, la madre vide suo figlio seduto tranquillamente davanti al pianoforte mentre suonava il motivetto: “Mambrú andò alla guerra”.
A quel punto, il grande maestro fece la sua entrata, si recò velocemente al piano e sussurrò all’orecchio del bambino: “Non smettere, continua pure a suonare”.
Quindi Paderewski stese la mano sinistra e cominciò a suonare la parte del basso. Poi pose la mano destra vicina a quella del bambino e vi aggiunse un bell’accompagnamento musicale.
Entrambi, il vecchio maestro e il piccolo apprendista, trasformarono così una situazione imbarazzante in un evento fortemente creativo.
Il pubblico ascoltò emozionato.

Così vanno le cose, quando si è con Dio.
Ciò che possiamo ottenere con le nostre forze, facciamolo il meglio che possiamo. I risultati non saranno sublimi.
Però, con l’aiuto delle mani del Maestro, le opere della nostra vita saranno veramente melodiose.
La prossima volta che decidi di fare qualcosa di grande, ascolta attentamente.
Potrai udire la voce del Maestro che sussurra al tuo orecchio: “Non ti fermare, continua a suonare”.
Senti le sue braccia amorose attorno a te.
Senti che le sue forti mani stanno suonando il concerto della tua vita.
Ricorda, Dio non chiama i dotati.
Dota coloro che egli chiama.
Che qualcuno suoni nella nostra vita è un privilegio.
Suonare nella vita di qualcuno è un onore.
Aiutare gli altri a fare della loro vita una melodia è un piacere indescrivibile.

La caduta

Errare e non correggersi, questo si chiama errare! La nostra gloria più grande non è nel non cadere mai, ma nel rialzarci dopo ogni caduta. Ho intitolato il «Mattutino» di oggi con un termine che segna una famosa raccolta di racconti dello scrittore francese Albert Camus: Chute, la «caduta» (1956). Il vocabolo, certo, rimanda anche al capitombolo fisico, al ruzzolare stramazzando a terra, ma è stato elevato a simbolo morale di colpa, errore, peccato. È in questa accezione metaforica che ci fermiamo, sostenuti da due aforismi dalla genesi molto diversa ma dall'esito comune. La prima frase è del celebre sapiente cinese Confucio e la seconda è dell'altrettanto celebre autore del Faust, Goethe. Entrambi, pur essendo distanti tra loro secoli, s'incontrano su una comune convinzione: la caduta fa parte della debolezza della nostra libertà, della fragilità della nostra volontà, della colpevolezza di fondo di tante nostre scelte. C'è, però, una differenza. Alcuni cadono nel male e là si acquietano: è un atteggiamento di capitolazione, oppure è una scelta di comodo. Si rimane e si sguazza nel fango, dimenticando il cielo da cui si è precipitati. È, questo, il vizio, un «errare e non correggersi», per dirla con Confucio. Ci sono, però, altri che sono piombati nel peccato, sono sprofondati nelle sabbie mobili dell'errore, ma non si rassegnano e con mani sanguinanti s'aggrappano a una roccia per risalire faticosamente e umilmente. E qui, per dirla con Goethe, si ha la vera nostra gloria che non è un'impossibile impeccabilità, bensì la coraggiosa volontà di «rialzarsi dopo ogni caduta». È il perdono di Cristo all'adultera: «Io non ti condanno, ma va' e d'ora in poi non peccare più» (Giovanni 8,11).

martedì 24 maggio 2011

Lettura Sapienziale (parte seconda)

Si può vivere ogni evento della giornata in modo orizzontale, casuale, frutto del destino o delle sole libertà umane in movimento, oppure anche in modo verticale, trascendente, scoprendo dietro ogni singolo evento del quotidiano un mistero da cercare, vivere, abbracciare, amare. Ecco la meraviglia e lo stupore dei piccoli che torna come necessario elemento di questa rivoluzionaria spiritualità. Questa sensibilità di lettura degli eventi è da acquisire, è un’arte, ma anche un dono da chiedere.

E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini (1Cor 1,22-25).

Condivido con voi alcuni esercizi in cui Chiara Amirante ci ha fatti allenare in questi anni a Nuovi Orizzonti.

Si inizia guardando ogni evento, dandosi uno “stop” e imponendosi di lodare per quell’evento o quel fatto osservato, sia che sia positivo sia che sia negativo. Si tratta di un esercizio, ma diventerà uno stile di vita che trasformerà il nostro modo di vedere la storia, che diventerà storia di salvezza. Mi sveglio la mattina, per prima cosa grido di gioia aggredendo la giornata con un “lode e gloria a Te Signore per questo nuovo giorno che mi doni! Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo” e così continua lodando per il sorgere del sole, per il lavoro che ti aspetta,per il cinguettio degli uccelli… e se tutto non è così splendido appena ti svegli lodalo lo stesso perché puoi condividere con Lui quelle volte che si è trovato ad esser in situazioni analoghe… se ti senti solo, lodalo perché puoi condividere la solitudine che ha vissuto al Gethzemani, se ti senti con pesi eccessivi, lodalo perché puoi condividere e offrire per la salvezza delle anime il peso portato da Lui con la croce, e se ti fa male il ginocchio perché c’è stato il temporale, lodalo perché puoi vivere qualcosa che Lui ha vissuto nella dolorosa passione quando è caduto a terra schiacciato dai pesi messigli addosso e dalle frustate ricevute… e se arriva quella signora che non sopporti e che ti scombina i piani, lodalo perché in lei poi trovare l’occasione di perdere la tua volontà per farti guidare dallo Spirito Santo che te l’ha mandata, e se vedi un tuo amico disperato che è stato lasciato dalla ragazza e si sfoga con te, lodalo perché in lui puoi consolare Gesù che soffre…

Di esempi ne possiamo fare a migliaia. Trasforma ogni evento in lode e atto d’Amore in cui trovare Gesù. Più aumenterà l’intensità del dolore e dell’offerta, più sarai configurato a Cristo vittima innocente per i nostri peccati e potrai partecipare alla sua Resurrezione che presto investirà il tuo cuore riempendolo di una gioia celeste.

Esercitiamoci dunque nella perfetta letizia, accogliendo con gioia ogni tribolazione, persecuzione, calunnia, tradimento, difficoltà e sofferenza. Accogliamo ogni dolore con grande amore, sapendo che in ogni croce che il Signore ci dona di vivere durante la giornata è nascosta la possibilità di un più profondo incontro con Lui.

mercoledì 18 maggio 2011

Il vecchio violino

Ad una vendita all'asta, il banditore sollevò un violino.
Era graffiato e scheggiato. Le corde pendevano allentate e il banditore pensava non valesse la pena perdere tanto tempo con il vecchio violino, ma lo sollevò con un sorriso.

"Che offerta mi fate, signori?" gridò. "Partiamo da...100 euro!".
"Centocinque!" disse una voce. Poi centodieci.
"Centoquindici!" disse un altro. Poi centoventi.
"Centoventi euro, uno; centoventi euro, due; centoventi...".

Dal fondo della stanza un uomo dai capelli grigi avanzò e prese l'archetto. Con il fazzoletto spolverò il vecchio violino, tese le corde allentate, lo impugnò con energia e suonò una melodia pura e dolce come il canto degli angeli.

Quando la musica cessò, il banditore, con una voce calma e bassa, disse:
"Quanto mi offrite per il vecchio violino?". E lo sollevò insieme con l'archetto.
"Mille, e chi dice duemila? Duemila! E chi dice tremila? tremila uno, tremila due,
tremila e tre, aggiudicato", disse il banditore.
La gente applaudi, ma alcuni chiesero:
"Che cosa ha cambiato il valore del violino?".
Pronta giunse la risposta: "Il tocco del Maestro".


Siamo vecchi strumenti impolverati e sfregiati.
Ma siamo in grado di suonare sublimi armonie.
Basta il tocco del Maestro.

martedì 17 maggio 2011

I ladri del presente

Mentre guardavo alternamente dalle due grandi finestre affacciate sul passato e sull'avvenire, i ladri entrarono indisturbati nella stanza e mi derubarono di tutto il presente. Secondo un antico apologo rabbinico, un giorno Dio inviò l'angelo Gabriele col dono dell'eternità da offrire all'umanità. Dopo una lunga perlustrazione l'angelo ritornò stringendo ancora nelle mani quel dono. E spiegò al Signore: «Non ho trovato nessun uomo che mi ascoltasse, perché tutti avevano un piede nel passato e l'altro nel futuro o non avevano un presente per fermarsi e sentirmi». Certo, è vero - come diceva sant'Agostino - che il presente, quando lo si dice, è già divenuto passato, mentre prima è solo un futuro da compiersi. Eppure, la vita è proprio un continuo presente e aveva ragione la poetessa fiorentina Margherita Guidacci (1921-1992) quando, nella rivista Linea Nuova del 1967, faceva l'intensa confessione che abbiamo sopra affidato ai nostri lettori. Sono tanti i ladri del presente che approfittano delle nostre distrazioni per rubarci l'istante in cui viviamo. C'è la nostalgia del passato che ci fa guardare indietro con malinconia, come accade alla moglie di Lot o come è stato per il famoso scrittore francese Marcel Proust, rivolto solo alla «ricerca del tempo perduto». Si diventa, così, persone dal rimpianto permanente, conservatori, lamentosi, depressi, convinti che l'età dell'oro è solo alle spalle. Ma c'è anche la frenesia del futuro che rende sempre tesi, esaltati, esagitati, febbrilmente attirati da un "poi" che ci sfugge di mano, rifugiandosi tra le nebbie dell'utopia. Ecco, allora, l'importanza di «comprendere quest'ora», come diceva Gesù ai suoi ascoltatori, di amare l'istante in cui Dio ci colloca continuamente, in attesa dell'istante unico, perfetto e definitivo dell'eternità.

lunedì 16 maggio 2011

Lettura Sapienziale (parte prima)

La lettura sapienziale è il leggere la storia e gli eventi scoprendo che tutto è grazia, tutto è dono, tutto è meraviglia! Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano. Ma a noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito; lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio (1Cor 2,9-10). Paradigmatica è la storia di Mosè: salvato da bambino dalle acque viene allevato alla corte del faraone come se fosse uno dei suoi figli, senza che gli sia nascosta la sua vera origine dal popolo schiavo degli ebrei. Gode della stessa educazione da principe, dello stesso trattamento dei figli di carne del faraone e cresce perciò colto e raffinato. All’improvviso, dopo tutti quegli anni passati alla corte del faraone, si macchia di un omicidio in preda ad un istinto di difesa per un proprio fratello ebreo e si ritrova ad essere un fuggiasco, ricercato per essere messo a morte, pastore e pecoraio in terra straniera vivendo con contadini che vivono ai piedi dell’Horeb. M’immagino il povero Mosè in quelle lunghe ore di pascolo ad interrogarsi sul senso della propria storia, della propria vita, di quelle situazioni di coincidenze che una moderna new-age leggerebbe come destino o casualità. Eppure ad un certo punto Dio ascoltò il lamento d’Israele e si ricordò della sua alleanza (Es 2,3). Per alcuni la vocazione di Mosè inizia in Esodo 3, ed è vero, là Dio gli conferirà il compito di liberare il suo popolo, ma c’è quella segreta e nascosta di Esodo 2,1-7 che solo la lettura sapienziale può scorgere: quando sembrava ad Israele che Dio stesse in silenzio dinanzi al suo grido ben 40 anni prima, quando sembrava buoi e oscuro e casuale la salvezza di un bimbo dalle acque, ecco invece che Dio aveva iniziato a preparare la sua risposta e la vocazione di Mosè. Dio si dà sempre in modo mediato, è il mistero stesso dell’Incarnazione. Noi abbiamo fretta, vorremmo la bacchetta magica, un Dio forte, che interviene subito…ma Dio si è fatto agnello, agnello sgozzato, ci dice che il mondo viene salvato dal Crocifisso e non dai crocifissori. Il mondo è redento dalla pazienza, questo è il suo modo d’agire, quello che oggi prepara tu non lo sai. Quello che sembra caso o destino è invece Provvidenza, storia della salvezza. Tutto matura nel silenzio come accade al contadino che getta il seme, dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme cresce, come, il contadino non lo sa (Mc 4, 26-27). “Io ho la mia missione, che mai saprò in questo mondo, ma Tu Signore me la rivelerai nell’altro mondo. Non so come, ma io sono stato creato per fare qualche cosa o per essere qualche cosa per la quale non è stato creato nessun altro. Se sono ammalato, la mia malattia può servirti; se mi trovo in perplessità, la mia perplessità può servirti; se sono nel dolore, il mio dolore può servirti. Tutto può far parte di un disegno più grande che mi sovrasta se riesco a dire e vivere l’in manus tuas affidandotelo e scoprendo in esso un’occasione per amarti. Tu sai quello che fai Signore, io mi fido di Te!”

mercoledì 11 maggio 2011

Come difendersi dal deserto che avanza

Uno tsunami di chiacchiere, un’alluvione di sciocchezze e pure idiozie, una tracimazione di banali o ridicoli “secondo me” che pretenziosi sentenziano su tutto e tutti…
Come difendersi da questo assordante assedio di tv, internet e altri media che ci fanno perdere di vista la realtà e perfino la cognizione di noi stessi (e che forse proprio per far perdere la cognizione del dolore vengono fatti dilagare)?
Queste formidabili armi di “distrazione” di massa riescono a far credere ad alcuni miliardi di abitanti del pianeta, per giorni, che il matrimonio di due bamboccioni di buona famiglia a Londra sia “la” notizia da diffondere in mondovisione per ore e che debba elettrizzare l’umanità, che sia la notizia importante per la nostra vita.
Assai più delle tragedie del mondo (perlopiù oscurate) e pure della nostra esistenza concreta, delle nostre difficoltà, delle nostre intime e brucianti domande, della nostra personale ricerca del senso della vita.
“Tutto cospira a tacere di noi/ un po’ come si tace un’onta,/ forse po’ come si tace/ una speranza ineffabile” (Rilke).
Tutto cospira a cancellare la domanda “per cosa vale la pena vivere?” o “chi sono io?”, tutti si rassegnano al pensiero dominante, a ripetere quel che “si dice”, a vivere all’esterno di se stessi.
E così “tutti quelli che mi hanno incontrato è come se non m’avessero veduto” (Rimbaud).
Così ci lasciamo convincere addirittura che è bene non essere se stessi, che l’inautentico è un’opportunità, che tante maschere possano sostituire un volto assente.
Lo proclama un personaggio di Philip Roth nel romanzo ‘La controvita’:
“Tutto ciò che posso dirti con certezza è che io, per esempio, non ho un io, e che non voglio o non posso assoggettarmi alla buffonata di un io.
Quella che ho al posto dell’io è una varietà di interpretazioni in cui posso produrmi, e non solo di me stesso: un’intera troupe di attori che ho interiorizzato, una compagnia stabile alla quale posso rivolgermi quando ho bisogno di un io, uno stock in continua evoluzione di copioni e di parti che formano il mio repertorio.
Ma sicuramente non possiedo un io indipendente dai miei ingannevoli tentativi artistici di averne uno. E non lo vorrei. Sono un teatro e nient’altro che un teatro”.

Così siamo divenuti una dimora disabitata, estranea a noi stessi. Per questo la nostra generazione trova così arduo accompagnare i propri figli in quella fondamentale avventura che è la conoscenza di sé e l’esplorazione del mistero dell’esistenza.
E siccome però esplode da ogni fibra del nostro essere il bisogno di ritrovarci, di scoprire la nostra anima, siccome non possiamo sfuggire alla “nostalgia del totalmente altro”, allora l’industria delle parole ci rifila sui suoi scaffali i “prodotti spirituali”, i Mancuso, i Galimberti e perfino gli Scalfari…
Come se si potesse mai placare l’atavica sete di acqua fresca di un morente nel deserto, con un diluvio di confuse chiacchiere sull’acqua.
Converrebbe piuttosto scoprire guide autentiche, per farci accompagnare alla decifrazione della nostra condizione umana e verso sorgenti di acqua zampillante…
Ci sono due testimoni, due grandi anime, apparentemente molto diverse e lontane: Franz Kafka e santa Teresa d’Avila. Cos’hanno in comune lo scrittore praghese e la mistica spagnola?
Intanto nascono entrambi nella storia e nella sensibilità ebraica e poi hanno scritto due libri – a distanza di tre secoli e mezzo – con un titolo quasi identico: “Il Castello”, nel caso di Kafka e “Il castello interiore” nel caso di Teresa d’Avila.
Per entrambi il “castello” è la metafora della misteriosa fortezza dell’anima, dell’autenticità. E’ stato Antonio Sicari ad accostare, in un suo piccolo volume – “Fortezze accessibili” (edizioni Ocd) – questi due grandi e i loro due libri.
Il “Castello” di Kafka racconta – secondo la sintesi di Sicari – di “un impiegato che giunge nel villaggio situato ai piedi del Castello da cui è stato ufficialmente convocato per assumervi il posto di agrimensore (geometra)”.
Quella “convocazione” del protagonista, identificato come “K.”, è la chiamata ad esistere (dal nulla) e al grande compito della vita.
“Ma nel Castello egli non riesce ad entrare a causa di mille difficoltà e mille intralci burocratici.. Il suo contratto d’assunzione è regolare e non può essere sciolto, ma è stato fatto nell’epoca in cui al Castello c’era veramente bisogno di un geometra, poi la pratica è andata smarrita per anni, quando finalmente è stata ritrovata e spedita già non c’era più bisogno di lui”.
Lo “spaesamento” del protagonista, ci avverte Sicari, è quello dell’uomo moderno: “gettato in un mondo dove non è atteso, dove è di troppo, dove nessuno ha bisogno di lui”.
Infatti l’ostessa del villaggio dice a K. : “lei non è del Castello, lei non è del paese, lei non è nulla”.
A dire il vero c’è stata un’occasione in cui K. poteva entrare finalmente nel Castello: “di fatto c’è un istante notturno in cui sembra che gli venga offerta una qualche possibilità, ma, proprio in quel momento, K. è intontito dal sonno e non ha la forza di rendersene conto”.
Quante volte un avvenimento, un incontro, un fatto, un volto ti fa intuire o ti spalanca la possibilità di ritrovare te stesso, ma poi quella possibilità di una vita diversa non fiorisce, non diventa una storia, viene perduta nella distrazione, a causa del nostro torpore, sprecata dalla nostra mancata adesione, dalle nebbie della sonnolenta esistenza “fuori” di noi.
Cosa ci sia dentro il Castello, cioè cosa si perde a starne fuori, lo racconta Il Castello interiore: “Anche Teresa” spiega Sicari “parla di un uomo ‘estraneo’ al Castello e ne parla in termini ancora più radicali (dato che, nella sua opera, l’uomo esiliato diventa sempre più simile alle bestie), ma ella ha anche insegnato la possibilità, e perfino il dovere, di ‘entrare’ nel Castello, di ‘abbellire e abitare’ progressivamente tutte le sue dimore e perfino di raggiungere l’appartamento regale dove si è amorevolmente attesi”.
Dal tempo di Teresa all’epoca moderna cosa è accaduto? E’ diventato più difficile incontrare delle “guide” che aprano le porte del Castello e ti accompagnino a gustarne le delizie.
Infatti K. non trova intermediari, non trova chi lo aiuti: “è alla spasmodica ricerca di un qualche amico, anche miserabile” nota Sicari, ma “non c’è mediatore alcuno, non c’è Messia”.
Il nostro è il tempo della povertà, quello in cui è più difficile incontrare i santi, gli amici del Salvatore, è più difficile riconoscerli e seguirli.
Eppure Dio ci raggiunge comunque attraverso il “divino drappello” dei suoi santi che è la Chiesa.
E’ proprio la “detestata” (dal mondo) Chiesa che può accompagnare l’uomo nel Castello in cui è stato chiamato a regnare.
Un po’ come lo “stalker” dell’omonimo film di Tarkovskij (un ex detenuto del lager, uno che a un certo punto mette sulla testa una corona di spine) accompagna chi lo chiede nella “zona” dove si trova la misteriosa “stanza dei desideri”.
Scrive Wittgenstein “Questo tendere all’assoluto, che fa sembrare troppo meschina qualsiasi felicità terrena… mi sembra stupendo, sublime, ma io fisso il mio sguardo nelle cose terrene: a meno che ‘Dio’ non mi visiti”.
Il Re dei Cieli ci visita e noi non ce ne accorgiamo, pieni di sonno, storditi dalle chiacchiere e dal frastuono della vita esteriore (fuori dal Castello) che non ci fa accorgere della sua voce che ci chiama.
Cosicché Eliot poteva scrivere: “Conoscenza del linguaggio, ma non del silenzio/ Conoscenza delle parole e ignoranza del Verbo/…/ Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo?/ Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nell’informazione?”.
Antonio Socci

Il vento e le candele

L'assenza affievolisce le passioni mediocri ma accresce le grandi, come il vento spegne le candele e ravviva il fuoco. «La lontananza, sai, è come il vento, che fa dimenticare chi non s'ama-»: così ripeteva una canzone degli anni Sessanta, rimodulando un motivo non raro nella letteratura di tutti i tempi. Oggi ho scelto di affidarmi a un autore francese prezioso per chi, come me, deve trovare ogni giorno uno spunto tematico espresso in forma incisiva ed essenziale. Si tratta dello scrittore moralistico francese François de la Rochefoucauld (1613-1680), alle cui Massime appartiene questa riflessione sull'assenza e sulla distanza. Bella è appunto l'immagine del vento che, quando soffia forte, spegne le fiammelle dei ceri ma alimenta i focolai degli incendi. Evidente è anche l'applicazione: le passioni vere e profonde non hanno bisogno di continue prove e sostegni; esse si alimentano a una forza e a un'energia di fondo. Vorrei, però, orientare la considerazione lungo un altro percorso tematico. Ai nostri giorni si scambiano per "grandi passioni" quelle che in realtà sono soltanto eccessi. Chi strepita e urla in televisione durante un dibattito o uno spettacolo non lo fa, certo, per un insopprimibile anelito per la verità o la giustizia. Non siamo di fronte allo sdegno profetico ma semplicemente alla cialtroneria pubblicitaria di chi vuole mettersi in mostra. La passione autentica per una causa si coltiva soprattutto nel silenzio delle opere, nell'impegno nascosto. L'assenza dalla scena in questo caso rivela una dignità e una genuina donazione all'ideale senza mettere in primo piano se stessi. Quasi tutti gli uomini di grande valore sono discreti e semplici. E questa discrezione è spesso scambiata per debolezza e insignificanza.

lunedì 9 maggio 2011

Il bambino che spostò un armadio con un dito

Seduto e in silenzio, Gesù guardava con tenerezza un bambino che cercava di spostare un grosso armadio, molto pesante, di casa sua.
Spingeva da un lato, poi spingeva da un altro, sbuffando e stringendo i denti, ma niente.. il grosso armadio non si spostava neanche di un millimetro.
Il bambino voleva spostare l’armadio per fare contenti i suoi genitori. Loro avevano molto bisogno di spostare l’armadio, ma non trovavano mai il tempo e la voglia di farlo.
Certo, poveretti.. tornavano a casa sempre stanchi del lavoro!
Questo il bambino lo capiva.
Quello che non capiva era perché litigavano sempre per colpa di quell’armadio.
La mamma rimproverava il papà di non fare assolutamente nulla per spostarlo.
Il papà accusava la mamma di non volere togliere tutta la roba che era dentro l’armadio per renderlo più leggero e permettergli di spostarlo.
In casa c’era sempre tensione e sembrava che andasse sempre peggio.
Così il bambino si sforzava di spostare l’armadio, e ci provava in tutti i modi. Niente… L’armadio era sempre al suo posto.
Il bambino era tutto sudato e anche molto stanco. Ci aveva messo tutta la sua forza.
Hai usato proprio tutte le tue forze?”, gli chiese Gesù con un tono di voce molto delicato.
“Si”, rispose il bambino, cercando di riprendere fiato.
Non mi sembra”, ribattè Gesù, “anzi, direi proprio di no… Pensaci bene. Hai fatto proprio tutto quello che potevi fare per spostarlo?”.
“Si”, rispose deluso e convinto il bambino.
Guarda che non hai ancora usato la tua forza più grande”.. disse Gesù con un bellissimo sorriso.
“Quale forza?” domandò il bambino con gli occhi spalancati per la meraviglia.
Non mi hai chiesto di aiutarti”.
Io sono la tua forza più grande!”.
Il bambino cominciò a pregare, e pregare, e pregare. L’armadio non si spostò.

Ma il papà una sera, rientrando a casa, sembrava più sereno. E, senza dire una parola, si mise a svuotare i cassetti dell’armadio.
La mamma lo vide e, dopo un po’, andò da lui dicendo: “aspetta che ti aiuto!”.
Insieme vuotarono l’armadio cominciando a ridere di tutti gli episodi che quelle cose gli ricordavano.
Poi insieme spinsero l’armadio fuori della loro stanza da letto.
Insieme prepararono la cena, e insieme andarono a riposarsi sul divano, abbracciati l’uno all’altro.
Il bambino si tuffò felice in mezzo a loro.
Da quel giorno imparò non a spingere gli armadi, ma a spingere i suoi genitori ad andare insieme a Messa la domenica, perché anche loro potessero ricevere la forza di Gesù.
Passò ancora un po’ di tempo.
I genitori e il bambino cominciarono a sentire il bisogno e il gusto di pregare insieme.
Ci si sentiva un po’ strani all’inizio su quel divano con la televisione spenta, ma poi era diventato il momento più bello della giornata.
Ci si sentiva uno dentro l’altro.
Ci si sentiva stanchi ma contenti, in una semplice e dolce pace.
Una colomba aveva preso l’abitudine di posarsi sul davanzale della loro finestra proprio mentre pregavano, chissà perché...
E fu così che, dopo qualche anno, in quella casa, gli armadi si spostavano con un solo dito!

giovedì 5 maggio 2011

In cammino con la Parola

Meditazione sul Vangelo secondo Giovanni (Gv 6,1-15)
Di fronte al bisogno della folla, la prima preoccupazione, il primo pensiero che sembra avere Gesù è la fede dei suoi discepoli. Ma gli apostoli calcolano, fanno l'inventario delle loro forze e dei loro mezzi e la loro risposta a Gesù è una constatazione scettica di impossibilità. Insomma, gli apostoli non hanno superato la prova della fede. Non hanno capito che Gesù non voleva mettere alla prova la loro bisaccia, ma la fede che dicevano di avere in lui. Qual è allora il buon atteggiamento di fede?
Il bambino dei cinque pani e dei due pesci da tutto, offre tutto.
Quello che offre non è niente rispetto al bisogno, ma questo niente, per il ragazzino, è tutto. Allora Dio può compiere l'offerta.
La santità è il compimento che Dio dà all'offerta totale, anche se l'offerta totale di noi stessi è l'offerta di un bel niente. La grazia germina sulla fede dell'offerta totale del piccolo, cioè di colui che non si sente mai padrone del compimento. Ed è così che Cristo chiede di affrontare i bisogni immensi del mondo e della chiesa. Gesù non ama i piani, le valutazioni, i programmi pastorali dettagliati in anticipo. Cristo preferisce che i suoi discepoli mettano a disposizione il poco o il niente che sono o che hanno: questo gli basta per moltiplicarlo.
Quanti piccoli pani e quanti pesci ammuffiscono e marciscono nelle nostre tasche, perchè li consideriamo insufficienti alla necessità, mentre basterebbe offrirli a Cristo affinchè li moltiplichi come vuole! Basterebbe una piccolezza fiduciosa che riconosce che tutto è già miracolo, anche i cinque pani e i due pesci donati dal bambino.
M.G. LEPORI, L'amato presente

mercoledì 4 maggio 2011

Il superfluo

Rendiamo necessarie mille cose superflue: esse generano un'infinità di miserie, una perdita di tempo e una vita difficile e tesa- Il superfluo dei ricchi dovrebbe servire al necessario dei poveri e, invece, il necessario dei poveri serve al superfluo dei ricchi. Si racconta che Socrate visitasse spesso il mercato di Atene e a chi gli chiedeva la ragione di tanto interesse, anche perché non vi acquistava nulla, rispondesse: «Vedo tutte le cose di cui non ho bisogno e di cui si può fare a meno nella vita». È un po' quello che noi chiamiamo «il superfluo», una realtà sulla quale si fonda invece una buona parte dell'attuale pubblicità. Mi sono imbattuto, al riguardo, in una suggestiva riflessione di Jean Domat, considerato il più grande giureconsulto francese del Seicento. La propongo nella sua immediatezza perché ci aiuta a fare almeno due considerazioni. Da un lato, c'è l'efficace rappresentazione delle cose inutili che accumuliamo (si pensi, solo per fare un esempio, allo spreco dei medicinali). Il cliente - anzi, il customer, come si usa dire oggi - è coccolato, assediato e circuito perché si convinca, come scriveva Erich Fromm nell'Arte di amare, che «la felicità moderna consiste nel guardare le vetrine e comprare tutto quello che ci si può permettere, in contanti o a rate». D'altro lato, questo consumismo spesso è un bene sottratto a chi ha la pura e semplice e vera necessità di sopravvivere. Pensiamo all'enorme quantità di pane che ogni giorno è gettata nella spazzatura e allo sperpero di realtà naturali che permetterebbero a molti di non morire di fame. In questi e altri casi ha ragione Domat: noi destiniamo il necessario dei poveri alle cupidigie del nostro superfluo.

martedì 3 maggio 2011

Grazie Santo Padre!

Questi giorni di grande festa a Roma sono stati eccezionali per la testimonianza di gioia e per l’occasione offerta, anche attraverso i media, di un messaggio importante al mondo intero: si può essere santi se si è innamorati di Cristo! La “rivoluzione dell’Amore” è possibile e può cambiare la storia se ci impegniamo realmente là dove siamo chiamati a vivere col peso della nostra responsabilità di cristiani o di “uomini di buona volontà”, nessuno escluso!

Giovanni Paolo II non è ora beato perché proclamato tale, ma avendo vissuto radicalmente il Vangelo è stato per tutti noi strumento dell’Amore di Dio vivendo tanti attimi di santità strutturatisi nel tempo, che oggi anche la Chiesa riconosce e indica come esempio per il mondo intero.

Il successo del suo messaggio – soprattutto per i giovani – è stata la coerenza di testimonianza di vita. Prima di ogni discorso, prima di ogni etica predicata, c’è stata una reale etica praticata a tal punto da essere trasparenza del volto di Dio Padre. “Cercano di capirmi dal di fuori – ebbe a dire – ma posso essere capito solo dal di dentro”. L’uomo Karol conosceva tantissime lingue ed era dotato di una capacità comunicativa unica, ma sono convinto che sia stato capace di toccare il cuore delle persone grazie alla proprietà dell’unico linguaggio veramente universale, quello dell’Amore e della Verità, di cui oggi tutti hanno particolarmente sete e sono capaci di riconoscerli.

C’è un filo rosso che lega ogni sua azione ed ogni suo discorso. C’è un passaggio di testimone che Giovanni Paolo II ha ricevuto essendo capace di portarlo fino in fondo. Nell’omelia conclusiva del Concilio Vaticano II il pontefice Paolo VI sottolineò come la Chiesa più di tutti sia cultrice dell’uomo, gettando luce sul cuore della costituzione Gaudium et Spes che afferma che Cristo svela l’uomo all’uomo e che la dignità della persona umana va difesa perché l’uomo e la donna sono stati creati ad immagine e somiglianza di Dio. Proprio questa fu il “cavallo di battaglia” dei ventisette anni di pontificato di “Karol il Grande”, che partendo dall’enciclica Redemptor hominis ha sostenuto infinite battaglie in difesa della vita umana, dichiarando che non esiste “guerra giusta” e allo stesso tempo chiedendo “azioni belliche di legittima difesa” in casi di “ingerenza umana”, combattendo ogni discriminazione, ogni svilimento della sessualità, ogni “cultura della morte”, promuovendo l’unica forza del dialogo, dell’apertura all’altro pur difendendo le proprie speranze e ragioni, chiedendo unilateralmente perdono per gli errori commessi per avviare un cammino di “purificazione della memoria”, affrontando il male delle diverse società facendosi missionario nel mondo incontrando persone, popoli, capi di stato, senza mai contraddirsi, ma tenendo sempre dinnanzi l’esempio di Gesù di Nazareth e mettendosi dalla parte dei più deboli, dei piccoli, degli ammalati, degli esclusi, dei perseguitati, degli scartati dalla società, combattendo i totalitarismi di ogni genere.

Ha subito un attentato fisico e una “silenziosa persecuzione”, ma ha sempre guardato a Maria come “Stella del Mattino”, vivendo un amore incondizionato per Dio, non perdendo il sorriso interiore neppure quando la malattia l’ha costretto ai nervi contratti sul volto. Ha combattuto da giovane il nazismo conoscendo la ferocia di satana capace di sfigurare l’opera di Dio, ha combattuto il comunismo totalitario, giungendo a mettere tutti in guardia sul sistema liberale e consumistico della post-modernità se ateo e fine a se stesso, come scrisse nella Centesimus annus.

La prima lettera di Giovanni al capitolo 5 ricorda che tre segni danno testimonianza: l’acqua, che in Giovanni Paolo II possiamo riconoscere nelle tante lacrime versate, in particolar modo nella grotta di Lourdes dove scoppiò in un pianto a dirotto; il sangue, versato il 13 maggio 1981 a piazza san Pietro e durante tutto il suo pontificato afflitto da dolori che lo hanno reso una cosa sola con Cristo crocifisso; lo spirito, che non solo ha “reso al Padre” nell’ultimo periodo, ma di cui è stato privato lentamente e che abbiamo sentito gradualmente sempre più affannoso fino a divenire l’unica parola pronunciabile. Sono debitore a padre Daniel Ange di questa meravigliosa ri-lettura spirituale.

Giovanni Paolo II è stato “cultore dell’uomo”, sottolineando che solo un’antropologia aperta al trascendente può essere una base su cui ricostruire una “civiltà dell’amore” che abbia come norma etica l’amore e la solidarietà, avendo così una politica e un’economia guidate dall’etica. Giovanni Paolo II è stato uomo capace del “dono di sé” fino al sangue, contemporaneamente “uomo dello Spirito” perché immerso in una dimensione mistica, e uomo con i piedi per terra capace di lacrime di vero cuore umano.

Alcuni parlano del Papa più grande della storia, eppure durante il suo pontificato fu oggetto di forti critiche e attacchi, non solo nei primi viaggi in Sud America. Condivide oggi lo stesso destino l’allora Cardinal Joseph Alois Ratzinger. I Cardinali Józef Wojtyła e Joseph Alois Ratzinger appartenevano all’area dei Vescovi progressisti moderati del dopo Vaticano II (entrambi osteggiati da sempre proprio per questa sua visione). Collaborarono per anni e ieri erano esposti i loro due stemmi all’inizio di piazza san Pietro: mi sembrava di vedere come due braccia e due colonne della Chiesa Madre che ci sta conducendo all’inizio di questo nuovo millennio! Ho il cuore ricolmo di gratitudine per questi due meravigliosi pontefici!

Non si possono enumerare e raccontare i viaggi, i documenti e le opere scritte, le giornate mondiali della gioventù… senza scadere in numeri da fredda statistica e in parziali resoconti incapaci di descrivere – in entrambi i pontificati – la straordinarietà dell’ordinaria offerta di sé a Dio. Ma i frutti ci aiutano a comprendere qualcosa che solo in Cielo ci sarà pienamente svelato. Ieri è stato uno dei frutti che abbiamo tutti potuto assaporare nella sua freschezza e flagranza.

Accade solitamente, quando una squadra nazionale vince un mondiale, che tutti i cittadini tifosi si riversino in piazza a festeggiare e ci sia un’atmosfera di particolare energia nell’aria, accompagnata da un sentimento di felicità e di unione che fa sentire tutti un po’ più vicini e uguali e quasi sembra che ogni problema sia stato dimenticato e ogni rancore cancellato per lasciare spazio a sentimenti di affetto, amicizia, fratellanza. Ecco, negli ultimi giorni, in particolare a Roma, si respirava un’aria frizzante, carica di positività e speranza, colorata di riconoscenza e di vittoria, nonostante la persona festeggiata fisicamente non ci sia più, superando di gran lunga la festa di una vittoria da scudetto, trasmettendo in tutti l’esigenza di esserci, anche solo col telecomando in mano, sentendosi davvero tutti figli del “Santo Padre” e fratelli tra di noi. Quanto sono povere le parole… ma quanto è stata forte l’emozione che ancora si vive quest’oggi qui a Roma!

Ieri allontanandomi da Piazza san Pietro, passando per via della Giuliana, ho letto una scritta sul muro: “Se non sei felice prova ad amare”. Tante volte Chiara Amirante ripete uno slogan simile dicendoci “Vuoi essere felice? Prova a cercare la felicità di chi ti sta accanto”. Proprio questa è stata la suprema testimonianza di Giovanni Paolo II, che si è speso per tutti e ciascuno, facendosi prossimo a chi gli stava accanto, testimoniando che solo nell’Amore di Cristo si può trovare la gioia.

L’omelia di Papa Benedetto XVI di ieri ha sottolineato come abbia vissuto in modo eroico le “beatitudini della fede” proprio sostenuto dal quel legame speciale con la Madre di Dio a cui ha affidato tutta l’umanità nel Totus Tuus di Luigi Maria de Montfort.

Spero per tutti voi – come è stato per me – sia nato un rinnovato impegno nella santità personale o almeno, per chi non è credente, verso il bene!

Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!

Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo.

Non abbiate paura!

Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa! Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo.

Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna!

domenica 1 maggio 2011

Beato te, amato Papa Giovanni Paolo II, perché hai creduto!

Cari fratelli e sorelle!

Sei anni or sono ci trovavamo in questa Piazza per celebrare i funerali del Papa Giovanni Paolo II. Profondo era il dolore per la perdita, ma più grande ancora era il senso di una immensa grazia che avvolgeva Roma e il mondo intero: la grazia che era come il frutto dell’intera vita del mio amato Predecessore, e specialmente della sua testimonianza nella sofferenza. Già in quel giorno noi sentivamo aleggiare il profumo della sua santità, e il Popolo di Dio ha manifestato in molti modi la sua venerazione per Lui. Per questo ho voluto che, nel doveroso rispetto della normativa della Chiesa, la sua causa di beatificazione potesse procedere con discreta celerità. Ed ecco che il giorno atteso è arrivato; è arrivato presto, perché così è piaciuto al Signore: Giovanni Paolo II è beato!

Desidero rivolgere il mio cordiale saluto a tutti voi che, per questa felice circostanza, siete convenuti così numerosi a Roma da ogni parte del mondo, Signori Cardinali, Patriarchi delle Chiese Orientali Cattoliche, Confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Delegazioni Ufficiali, Ambasciatori e Autorità, persone consacrate e fedeli laici, e lo estendo a quanti sono uniti a noi mediante la radio e la televisione.


Questa Domenica è la Seconda di Pasqua, che il beato Giovanni Paolo II ha intitolato alla Divina Misericordia. Perciò è stata scelta questa data per l’odierna Celebrazione, perché, per un disegno provvidenziale, il mio Predecessore rese lo spirito a Dio proprio la sera della vigilia di questa ricorrenza. Oggi, inoltre, è il primo giorno del mese di maggio, il mese di Maria; ed è anche la memoria di san Giuseppe lavoratore. Questi elementi concorrono ad arricchire la nostra preghiera, aiutano noi che siamo ancora pellegrini nel tempo e nello spazio; mentre in Cielo, ben diversa è la festa tra gli Angeli e i Santi! Eppure, uno solo è Dio, e uno è Cristo Signore, che come un ponte congiunge la terra e il Cielo, e noi in questo momento ci sentiamo più che mai vicini, quasi partecipi della Liturgia celeste.


"Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!" (Gv 20,29). Nel Vangelo di oggi Gesù pronuncia questa beatitudine: la beatitudine della fede. Essa ci colpisce in modo particolare, perché siamo riuniti proprio per celebrare una Beatificazione, e ancora di più perché oggi è stato proclamato Beato un Papa, un Successore di Pietro, chiamato a confermare i fratelli nella fede. Giovanni Paolo II è beato per la sua fede, forte e generosa, apostolica. E subito ricordiamo quell’altra beatitudine: "Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli" (Mt 16,17). Che cosa ha rivelato il Padre celeste a Simone? Che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente. Per questa fede Simone diventa "Pietro", la roccia su cui Gesù può edificare la sua Chiesa. La beatitudine eterna di Giovanni Paolo II, che oggi la Chiesa ha la gioia di proclamare, sta tutta dentro queste parole di Cristo: "Beato sei tu, Simone" e "Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!". La beatitudine della fede, che anche Giovanni Paolo II ha ricevuto in dono da Dio Padre, per l’edificazione della Chiesa di Cristo.


Ma il nostro pensiero va ad un’altra beatitudine, che nel Vangelo precede tutte le altre. E’ quella della Vergine Maria, la Madre del Redentore. A Lei, che ha appena concepito Gesù nel suo grembo, santa Elisabetta dice: "Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto" (Lc 1,45). La beatitudine della fede ha il suo modello in Maria, e tutti siamo lieti che la beatificazione di Giovanni Paolo II avvenga nel primo giorno del mese mariano, sotto lo sguardo materno di Colei che, con la sua fede, sostenne la fede degli Apostoli, e continuamente sostiene la fede dei loro successori, specialmente di quelli che sono chiamati a sedere sulla cattedra di Pietro. Maria non compare nei racconti della risurrezione di Cristo, ma la sua presenza è come nascosta ovunque: lei è la Madre, a cui Gesù ha affidato ciascuno dei discepoli e l’intera comunità. In particolare, notiamo che la presenza effettiva e materna di Maria viene registrata da san Giovanni e da san Luca nei contesti che precedono quelli del Vangelo odierno e della prima Lettura: nel racconto della morte di Gesù, dove Maria compare ai piedi della croce (cfr Gv 19,25); e all’inizio degli Atti degli Apostoli, che la presentano in mezzo ai discepoli riuniti in preghiera nel cenacolo (cfr At 1,14).


Anche la seconda Lettura odierna ci parla della fede, ed è proprio san Pietro che scrive, pieno di entusiasmo spirituale, indicando ai neo-battezzati le ragioni della loro speranza e della loro gioia. Mi piace osservare che in questo passo, all’inizio della sua Prima Lettera, Pietro non si esprime in modo esortativo, ma indicativo; scrive, infatti: "Siete ricolmi di gioia" – e aggiunge: "Voi lo amate, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la meta della vostra fede: la salvezza delle anime" (1Pt 1,6.8-9). Tutto è all’indicativo, perché c’è una nuova realtà, generata dalla risurrezione di Cristo, una realtà accessibile alla fede. "Questo è stato fatto dal Signore - dice il Salmo (118,23) - una meraviglia ai nostri occhi", gli occhi della fede.


Cari fratelli e sorelle, oggi risplende ai nostri occhi, nella piena luce spirituale del Cristo risorto, la figura amata e venerata di Giovanni Paolo II. Oggi il suo nome si aggiunge alla schiera di Santi e Beati che egli ha proclamato durante i quasi 27 anni di pontificato, ricordando con forza la vocazione universale alla misura alta della vita cristiana, alla santità, come afferma la Costituzione conciliare Lumen gentium sulla Chiesa. Tutti i membri del Popolo di Dio – Vescovi, sacerdoti, diaconi, fedeli laici, religiosi, religiose – siamo in cammino verso la patria celeste, dove ci ha preceduto la Vergine Maria, associata in modo singolare e perfetto al mistero di Cristo e della Chiesa. Karol Wojty?a, prima come Vescovo Ausiliare e poi come Arcivescovo di Cracovia, ha partecipato al Concilio Vaticano II e sapeva bene che dedicare a Maria l’ultimo capitolo del Documento sulla Chiesa significava porre la Madre del Redentore quale immagine e modello di santità per ogni cristiano e per la Chiesa intera. Questa visione teologica è quella che il beato Giovanni Paolo II ha scoperto da giovane e ha poi conservato e approfondito per tutta la vita. Una visione che si riassume nell’icona biblica di Cristo sulla croce con accanto Maria, sua madre. Un’icona che si trova nel Vangelo di Giovanni (19,25-27) ed è riassunta nello stemma episcopale e poi papale di Karol Wojty?a: una croce d’oro, una "emme" in basso a destra, e il motto "Totus tuus", che corrisponde alla celebre espressione di san Luigi Maria Grignion de Montfort, nella quale Karol Wojty?a ha trovato un principio fondamentale per la sua vita: "Totus tutus ego sum et omnia mea tua sunt. Accipio Te in mea omnia. Praebe mihi cor tuum, Maria – Sono tutto tuo e tutto ciò che è mio è tuo. Ti prendo per ogni mio bene. Dammi il tuo cuore, o Maria" (Trattato della vera devozione alla Santa Vergine, n. 266).


Nel suo Testamento il nuovo Beato scrisse: "Quando nel giorno 16 ottobre 1978 il conclave dei cardinali scelse Giovanni Paolo II, il Primate della Polonia card. Stefan Wyszy?ski mi disse: «Il compito del nuovo papa sarà di introdurre la Chiesa nel Terzo Millennio»". E aggiungeva: "Desidero ancora una volta esprimere gratitudine allo Spirito Santo per il grande dono del Concilio Vaticano II, al quale insieme con l’intera Chiesa – e soprattutto con l’intero episcopato – mi sento debitore. Sono convinto che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito. Come vescovo che ha partecipato all’evento conciliare dal primo all’ultimo giorno, desidero affidare questo grande patrimonio a tutti coloro che sono e saranno in futuro chiamati a realizzarlo. Per parte mia ringrazio l’eterno Pastore che mi ha permesso di servire questa grandissima causa nel corso di tutti gli anni del mio pontificato". E qual è questa "causa"? E’ la stessa che Giovanni Paolo II ha enunciato nella sua prima Messa solenne in Piazza San Pietro, con le memorabili parole: "Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!". Quello che il neo-eletto Papa chiedeva a tutti, egli stesso lo ha fatto per primo: ha aperto a Cristo la società, la cultura, i sistemi politici ed economici, invertendo con la forza di un gigante – forza che gli veniva da Dio – una tendenza che poteva sembrare irreversibile.


Swoim ?wiadectwem wiary, mi?o?ci i odwagi apostolskiej, pe?nym ludzkiej wra?liwo?ci, ten znakomity syn Narodu polskiego pomóg? chrze?cijanom na ca?ym ?wiecie, by nie l?kali si? by? chrze?cijanami, nale?e? do Ko?cio?a, g?osi? Ewangeli?. Jednym s?owem: pomóg? nam nie l?ka? si? prawdy, gdy? prawda jest gwarancj? wolno?ci.

[Con la sua testimonianza di fede, di amore e di coraggio apostolico, accompagnata da una grande carica umana, questo esemplare figlio della Nazione polacca ha aiutato i cristiani di tutto il mondo a non avere paura di dirsi cristiani, di appartenere alla Chiesa, di parlare del Vangelo. In una parola: ci ha aiutato a non avere paura della verità, perché la verità è garanzia di libertà.]


Ancora più in sintesi: ci ha ridato la forza di credere in Cristo, perché Cristo è Redemptor hominis, Redentore dell’uomo: il tema della sua prima Enciclica e il filo conduttore di tutte le altre.

Karol Wojty?a salì al soglio di Pietro portando con sé la sua profonda riflessione sul confronto tra il marxismo e il cristianesimo, incentrato sull’uomo. Il suo messaggio è stato questo: l’uomo è la via della Chiesa, e Cristo è la via dell’uomo. Con questo messaggio, che è la grande eredità del Concilio Vaticano II e del suo "timoniere" il Servo di Dio Papa Paolo VI, Giovanni Paolo II ha guidato il Popolo di Dio a varcare la soglia del Terzo Millennio, che proprio grazie a Cristo egli ha potuto chiamare "soglia della speranza". Sì, attraverso il lungo cammino di preparazione al Grande Giubileo, egli ha dato al Cristianesimo un rinnovato orientamento al futuro, il futuro di Dio, trascendente rispetto alla storia, ma che pure incide sulla storia. Quella carica di speranza che era stata ceduta in qualche modo al marxismo e all’ideologia del progresso, egli l’ha legittimamente rivendicata al Cristianesimo, restituendole la fisionomia autentica della speranza, da vivere nella storia con uno spirito di "avvento", in un’esistenza personale e comunitaria orientata a Cristo, pienezza dell’uomo e compimento delle sue attese di giustizia e di pace.


Vorrei infine rendere grazie a Dio anche per la personale esperienza che mi ha concesso, di collaborare a lungo con il beato Papa Giovanni Paolo II. Già prima avevo avuto modo di conoscerlo e di stimarlo, ma dal 1982, quando mi chiamò a Roma come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, per 23 anni ho potuto stargli vicino e venerare sempre più la sua persona. Il mio servizio è stato sostenuto dalla sua profondità spirituale, dalla ricchezza delle sue intuizioni. L’esempio della sua preghiera mi ha sempre colpito ed edificato: egli si immergeva nell’incontro con Dio, pur in mezzo alle molteplici incombenze del suo ministero. E poi la sua testimonianza nella sofferenza: il Signore lo ha spogliato pian piano di tutto, ma egli è rimasto sempre una "roccia", come Cristo lo ha voluto. La sua profonda umiltà, radicata nell’intima unione con Cristo, gli ha permesso di continuare a guidare la Chiesa e a dare al mondo un messaggio ancora più eloquente proprio nel tempo in cui le forze fisiche gli venivano meno. Così egli ha realizzato in modo straordinario la vocazione di ogni sacerdote e vescovo: diventare un tutt’uno con quel Gesù, che quotidianamente riceve e offre nell’Eucaristia.


Beato te, amato Papa Giovanni Paolo II, perché hai creduto! Continua – ti preghiamo – a sostenere dal Cielo la fede del Popolo di Dio. Amen.

omelia di Benedetto XVI